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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

C’era una volta in un ristorante a Piazza Vittorio

Da “Jeeg Robot” a “La città proibita” tra poco in sala Gabriele Mainetti racconta il nuovo film ambientato nella piazza simbolo della Roma multietnica
La città proibita è il nome di un ristorante cinese nel crogiolo etnico di Piazza Vittorio, a Roma, il varco verso un mondo sotterraneo di immigrazione clandestina e criminalità, proprio di fronte a una delle ultime trattorie romane che s’arrabattano per tirare avanti, da Alfredo, il tavolo fisso dell’anziano fuorilegge. Il quadrilatero umbertino, circoscritto da portici scrostati e pavimenti sbrecciati, diventa teatro di una storia d’amore shakespiriana a e di una faida western alla Sergio Leone nel film che Gabriele Mainetti ci consegna a dieci anni da Lo chiamavano Jeeg Robot e a quattro da Freaks out.Nel crocevia di generi – kung-fu all’italiana, gangster movie nostalgico, storia di vendetta – si muovono Mei, misteriosa ragazza cinese in cerca della sorella, e il cuoco Marcello, che con la madre gestisce la cucina e i debiti lasciati dal padre, fuggito con una giovane donna. Nella piazza si consuma lo scontro tra generazioni e culture, antichi pregiudizi e necessarie contaminazioni, in un cambiamento che arriva, inarrestabile, ad aprire un’epoca nuova. La città proibita è prodotto da Wildside, Goon Films e PiperFilm, che lo porta in sala il 13 marzo.
Com’è nata questa storia?
«L’ho immaginata mentre ero perso in altri progetti difficili e ambiziosi.
Qualcosa tipo “kung-fu all’amatriciana”. Pensavo solo di produrre, mi sono ritrovato a girare questo film d’azione che è anche tanto altro, soprattutto una storia d’amore tra due culture opposte, consumato in una piazza simbolo di Roma. L’idea era regalare al pubblico un’esperienza cinematografica con qualcosa di nuovo».
Roma è la Città proibita al centro del suo cinema«Fa parte della mia storia e della mia vita. Mi piace montarla, reinventarla con il genere che sto utilizzando. InJeeg Robot c’è un centro ostile – San Pietro, il lungotevere, un dedalo di strade in cui Enzo Ceccotti si perdeva, ritrovando chiarezza nell’architettura brutalista della sua Tor Bella Monaca. In Freaks out ho ricostruito la zona dell’antico ghetto con una una storia fantastica perché la città vera l’hanno raccontata i film di De Sica e Rossellini, con cui sono cresciuto. Stavolta non volevo farla diventare Hong Kong, ma ho indicato al direttore della fotografia due fari:Hong Kong Express eAngeli perduti.Volevo bagnare di luce colorata Roma di notte, renderla magica Hitchcock diceva di avere tutto in testa, ciò che veniva dopo la sceneggiatura era una rottura di scatole. Ma per me la verità è che le cose si formano mentre le fai, con le persone. Mi interessa che l’ambiente racconti l’uomo, come nel cinema di Fritz Lang. Pasolini la chiamava la soggettiva libera indiretta.E poi i personaggi, nella loro verità romana, nella loro italianità, nella loro identità, mi hanno tenuto ancorato a qualcosa di credibile, emozionante».
Il cuoco Marcello e la madre Lorena, una vita chiusa in trattoria, l’anziano gangster Annibale, la “guerriera” Mei, il boss Mr Wang.
Ecco i suoi personaggi
«A Sabrina Ferilli ho mandato il progetto che avevo appena dieci righe di sinossi, è stata dolcissima e generosa. Con Marco Giallini avevo girato il primo corto, Basette. Ha dato al personaggio di Annibale tutta la sua profondità e il suo dolore. Stefano Bises, che firma con me e Davide Serino la sceneggiatura, ha quasi sessant’anni e ha riversato la sua romanità dentro Annibale, un fuorilegge segnato dalla vita. Ho voluto Enrico Borello per l’amletico Marcello, Chunyu Shanshan per il boss che era venuto a conquistare Roma, ma capisce di essere stato contaminato. Sulla carta era troppo cattivo e gli ho affiancato un figlio, il vero rapper Maggio, che ha scritto una canzone per il film».
Mei, la cinese Yaxi Liu, è una scoperta.
«Ha iniziato col kung fu, è diventata stuntwoman, una delle controfigure di Mulan. Avevo visto attrici cinesi famose, ma il suo provino è stato straordinario. Ha una storia simile a quella di Mei: è la terzogenita della sua famiglia e suo padre ha subito un declassamento lavorativo a causa sua. Ha sentito il peso di questa colpa in una cultura in cui le donne hanno ancora meno spazio. Ciò ha alimentato in lei rabbia e decisione. Come Ilenia Pastorelli, ha capito che doveva mettere sé stessa nel personaggio. Non ha “interpretato” il dolore, lo ha vissuto davvero».
Il film è ricco di rimandi. A partire da “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”.
«Lo ricordo a memoria. Ho pensato di rifare l’incontro tra Chuck Norris e Bruce Lee al Colosseo, poi abbiamo optato per una fabbrica: il nostro boss cinese è l’uomo dei sotterranei. C’è un mondocinematografico che emerge nei miei film, ma non faccio citazioni precise come Tarantino. Penso alla vendetta di Old Boy di Park Chan-wook, aL’odore della notte, di Claudio Caligari. E ho tenuto presente Per un pugno di dollari di Sergio Leone».
Come è entrato nella cultura cinese?
«Come per Freaks out mi ero rivolto alla comunità ebraica, così ho fatto con quella cinese. Un responsabile dei flussi migratori in Italia ha visionato il linguaggio».
Dieci anni fa iniziava l’avventura di “Jeeg Robot”.
«Ero un giovane regista, cercavo di raccontare un cinema che sentivo mio, che io stesso etichettavo “di genere”. Critica e pubblico ci hanno visto qualcosa di speciale, forse anche troppo, ma comunque diverso. Con caparbietà l’ho anche prodotto, unendo le cose che amavo da ragazzo al reale che mi affascinava della mia città. Con Freaks out ho fatto un’operazione più grande. Alcuni mi hanno puntato il dito contro, “troppo ambizioso” mi hanno detto, invece ero massacrato dall’insicurezza, parlavo quasi con i semafori: sarò in grado di fare qualcosa all’altezza di Jeeg Robot? Poi il timore è stato superato dai problemi produttivi. Era tutto un “non se po’ fa”. Non ho avuto la pretesa di raccontare la Roma del passato, c’era Roma città aperta a farlo, con umiltà ho inventato un’altra storia».
Ha rifiutato proposte hollywoodiane come “Venom”.
«Voglio fare un film americano, ma solo se posso partecipare alla scrittura e al processo creativo. Non faccio cose in cui non credo».
E ha ha avuto tre figli.
«Esperienza che mi ha cambiato: ho imparato a delegare. Ho assistito a tutti i parti, mi sono innamorato ancor di più della mia compagna. Mi hanno messo in braccio il primo neonato e ho capito: “Se pensi che sia tuo, lo stai già condizionando. Lui è suo e tu lo devi accogliere e capire».
Le chiedono ancora una nuova storia per Enzo Ceccotti?
«In tanti, compreso lo stesso Claudio (Santamaria ndr). istintivamente direi di no, ma non puoi mai saperlo.