Robinson, 23 febbraio 2025
Scott Snyder “Il futuro è fatto di notizie false”
Stephen King ha cambiato due volte la sua vita: da piccolo e da grande. E forse anche una terza. Perché le sue storie, come quelle del “Re”, non sono ciò che sembrano
«Ci hanno sempre predetto un futuro apocalittico e pensavamo a qualcosa di catastrofico, intenso e fulmineo. Nessuno ci ha avvertito che sarebbe stato solo una lenta e inarrestabile decadenza. Le cose costano di più, ci vogliono tre mesi per avere una lavatrice o qualcos’altro dall’estero. Possiamo avere notizie dal mondo, ma non interessano a nessuno. Abbiamo i robot, WRK, che fanno i lavori che noi non vogliamo fare e abbiamo veil per nascondere ciò che non vogliamo vedere: eccoci qui in un futuro chenon è un grido d’orrore primordiale ma un miliardo di piccoli sbuffi, una fottuta alzata di spalle» recita l’inizio di Clear, uno dei quattro volumi di Scott Snyder, uno dei più acuti talenti del fumetto americano, per ComiXology (in Italia pubblicate da Star Comics). I “veil” sono una droga legale con cui “velare” una realtà che non ci piace. Per esempio il fatto che gli Usa hanno perso “la Guerra Rossa” con la Cina. Ma partiamo dall’inizio.
È vero che Stephen King è stato fondamentale per te?
«Avevo nove anni e i miei genitori mi mandarono in un campo scuola.
Erano tutti maschi e facevano molto sport. Ma io non ero molto atletico ed ero così infelice. Però c’era una cosa fantastica: uno dei capi, Ted, ricordo ancora il suo nome, leggeva ad alta voce alla sera Gli occhi del drago. È stata la mia prima, vera ispirazione».
E per quanto riguarda il fumetto?
«L’anno successivo, è uscito Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller: mi ha mandato fuori di testa. Io sono cresciuto a New York negli anni ‘80 e all’improvviso Batman sembrava reale tra la Russia della Guerra Fredda e la città che stava cadendo a pezzi. Capii che i fumetti erano la cosa che volevo davvero fare».
Ma poi con Stephen King ci hai davvero lavorato...
«Nel 2010 abbiamo fatto insieme
American Vampire. Lui aveva scritto parole davvero belle su un paio dei miei racconti brevi. E così, quando ho fattoAmerican Vampire, gli ho scritto: “Pensi di poter leggere il soggetto della nuova serie a cui sto lavorando e magari, se ti piace, scrivere qualcosa a riguardo?”. Ma lui mi ha risposto: “Vorrei scriverne un numero”. E io: “Davvero’?”. L’avevo venduto per pochi soldi, ovviamente con il suo nome in mezzo avremmo potuto ricavarci molto di più! E poi la storia è arrivata e poi un’altra e un’altra ancora: insomma Stephen King ha scritto i primi cinque numeri! E in pratica non ha chiesto un soldo. Però ti tende sempre dei tranelli (ride): tipo che manda una sceneggiatura in cui dice “E poi Skinner Sweet si trasforma in un pipistrello e vola via”. E tu pensi: “Oh no! Ora devo dire a Stephen King che i nostri vampiri non fanno questo!”. E lui, nella mail successiva, mentre tu pensi a come dirglielo ti scrive: “Ti sto solo prendendo in giro”».
Ma l’hai incontrato di persona?
«Sì, molte volte. Una giorno io e mia moglie stavamo guidando in Florida.
Lui ha visto sul mio Twitter che eravamo in zona e mi ha scritto: “Scott, venite da noi!”. Hanno una casa lì. E così siamo andati e lui ha preparato degli spaghetti. Quandofaccio per prenderli fa: “Sposta solo quello schifo dal tavolo, ok?”. Era la copia originale del suo romanzoUnder the Dome. E io ero così nervoso solo all’idea di toccarlo, capisci (ride)? È sempre così dolce. Non parla solo di sé, ti chiede sempre “Come stai?”, “Su cosa stai lavorando?».
E com’è la casa di Stephen King?
«Proprio come te la immagini: ha una piscina con la Creatura della Laguna Nera e c’è un passaggio segreto che dal suo studio porta alla cucina quando apri la libreria e ha delle illustrazioni di Bernie Wrightsontratte daCreepshow sul muro».
Perché hai deciso di fare delle serie tue con ComiXology?
«Sempre grazie a lui: ero stanco di fare Batman ma non riuscivo a smettere perché la DC mi dava cose molto interessanti. Stephen a un certo punto mi ha detto: “Basta: devi fare le tue cose adesso altrimenti non le farai mai più”. Volevo smetterla per un po’ con i supereroi per crescere e così ognuno dei quattro volumi che ho fatto è stato un vero e proprio esperimento realizzato con il co-creatore dividendosi eventualiprofitti o perdite. Insomma era ora di prendersi dei rischi» .
I volumi sono molto diversi.
«Esatto: per Clear con Francis Manapul, per esempio ci siamo chiesti: “Che cos’è la fantascienza? La paura di qualcosa che avverrà”.
“Allora di cosa hai paura, Francis?”.
Entrambi avevamo paura della stessa cosa, ovvero del modo in cui in America oggi sembra che la verità venga erosa e si possa trasformare il falso in realtà. Così abbiamo fatto un libro in cui puoi effettivamente vedere il mondo come vuoi con il veil.Volevamo toccare dei nervi scoperti. E lo stesso con Tula Lotay per Barnstormers. “Qual è il libro che vorresti fare?”. “Beh, adoro la storia. Adoro gli anni ‘20”. “Ok, gli anni ‘20 sembrano avere dei paralleli con oggi”. È un momento in cui i ricchi stanno diventando molto più ricchi negli Stati Uniti e i giovani sono in difficoltà. Facciamo un libro sui giovani che stanno cercando di fare qualcosa di folle. Con Francesco Francavilla che è un fantastico disegnatore italiano che ama le atmosfere horror ci siamo chiesti invece quale sarebbe stato il mostropiù interessante da disegnare: “Ma certo, il ghoul!”. E così è stato».
E con “ We have demons”?
«Questi demoni che potrebbero distruggere l’umanità sono un riferimento all’epidemia: ci stavamo lavorando nel periodo del Covid».
Trump sembra incarnare l’idea di “verità alternative” create dal potere di cui si parla in “Clear”.
«La cosa distruttiva in lui, secondo me, è che fa appello al lato peggiore delle persone, cercando sempre di creare divisioni, di farti odiare l’altro inventando storie su quelli che non ti piacciono. Se diciamo che “Le persone non sono uguali”, che “Quelli non sono come noi” andiamo contro gli ideali che hanno ispirato le convinzioni fondamentali degli Stati Uniti. Ho cercato di prendere tutte quelle paure, ansie, speranze e di metterle nei libri per cercare di fare qualcosa, soprattutto per le nuove generazioni. I nostri figli» .