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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Victoria senza pace

Nella sua biografia letteraria, la svedese Åsbrink ricostruisce la vita ottocentesca di Benedictsson, autrice ribelle e di talento che morì suicida Voleva tutto: amore, amicizia, successo, stabilità economica, scambi intellettuali, intimità, e anche una stanza tutta per sé. C’erano luci nella sua vita, ma non mancarono mai le ombre». Il mio grande bellissimo odio è una biografia letteraria dedicata alla scrittrice e intellettuale svedese Victoria Benedictsson, figura cruciale dell’Ottocento nordico. Scritto dalla svedese Elisabeth Åsbrink ( e tradotto in italiano da Katia De Marco per Iperborea), il libro si muove tra reportage letterario e biografia, ricostruendo l’esistenza tormentata di Benedictsson attraverso i suoi romanzi e i suoi diari, ma anche grazie ai saggi del critico letterario Georg Brandes. Morta suicida a trentotto anni, Victoria Benedictsson lasciò dietro di sé un’ingente quantità di testi inediti: lettere, appunti e frammenti, molti dei quali scritti per essere letti solo dopo la sua morte. Come scrisse il 12 dicembre 1886, un anno e mezzo prima di togliersi la vita: «Non mi interessa chi leggerà il mio Grande libro, quando sarò morta. Chiunque voi siate, cercate di capire quanto sono sola, quanto devo tenere a bada questo mio sangue d’artista, o tzigano, che mi scorre nelle vene più caldo di quanto si possa immaginare». Al centro della sua scrittura, d’altronde, c’è una critica feroce della Svezia fine Ottocento. Ma ci sono anche i dubbi e le incertezze di chi non smise mai di provare a essere vista e riconosciuta. Victoria odiava i limiti imposti alle donne, la famiglia d’origine e il marito, persino il suo stesso essere donna e madre. Definita da Elisabeth Åsbrink come una «femminista che odia le donne», l’intellettuale e scrittrice svedese pubblicò la maggior parte delle opere sotto lo pseudonimo maschile di Ernst Ahlgren. E proprio questo nome compare sulla sua lapide, accompagnato da due parole: «Implora pace».
Una pace che, in vita, Benedictsson non riuscì a trovare, nonostante la finezza e la profondità con cui seppe raccontare la propria epoca. Se fosse stata un uomo, ipotizza Åsbrink, Victoria sarebbe probabilmente diventata un’eroina progressista, alla stregua del drammaturgo e poeta norvegese Henrik Ibsen, con il quale Benedictsson condivise la visione del mondo. Ma, in quanto donna, restò un’anomalia; e pagò con la vita il prezzo della sua ribellione. «Victoria Benedictsson sarebbe stata la stessa, se fosse vissuta in un altro periodo storico?» si chiede Åsbrinknelle pagine iniziali della sua biografia. «E la sua epoca sarebbe rimasta la stessa, senza di lei?» si domanda, aiutando i lettori e le lettrici a capire quale sarà il fil rouge della sua biografia.
Cresciuta in un ambiente opprimente, Victoria non poté ricevere l’istruzione che tanto desiderava e per tutta la vita si sentì inferiore rispetto agli uomini. Sapeva di avere talento, di possedere uno sguardo sul mondo che meritava di essere accolto e riconosciuto, ma il suo valore rimase inascoltato, spingendola progressivamente verso la disperazione. Nata nel 1850, quando la madre aveva quarantatré anni e il padre quarantanove, dopo tre figli, venne devastata dalla morte del fratello quando aveva appena compiuto un anno. Nessuno sa come visse esattamente quel dramma, né come percepì la vita di coppia dei suoi genitori, ma sono numerose le pagine in cui Benedictsson racconta la propria solitudine, così come la percezione di estraneità rispetto a un mondo di cui non sopportava l’ipocrisia. «Una verità è una verità. Una menzogna è una menzogna. Il suo essere irremovibile, inflessibile come l’acciaio, è una delle sue forze più grandi, e allo stesso tempo una delle sue più grandi debolezze». Sposata con un uomo che non amava, madre di sei figli, Victoria Benedictsson fu infelice sia nel ruolo di moglie che in quello di madre. Amò due uomini, Charles de Quillfeldt e Georg Brandes: al primo rinunciò quando si rese conto che l’amicizia non le bastava; con il secondo visse una relazione tormentata, respingendo l’idea che la comunione dei sensi potesse esistere senza una comunione di pensiero: «Solo così la sessualità si libera del proprio lato animalesco e la comunione intellettuale si incarna in un corpo».
Utilizzando un materiale ricco e in parte inedito, Elisabeth Åsbrink racconta il dramma di una donna che, rifiutandosi di essere solo moglie e madre, tentò ante litteram di scardinare il patriarcato, senza però riuscire a essere vista, ascoltata e riconosciuta. «Se il concetto di donna consiste nella triade bellezza, disponibilità sessuale e istinto materno, centocinquant’anni di ricerche sembrano dimostrare che Victoria Benedictsson le negava tutte e tre». Una figura scomoda, troppo moderna per il suo tempo, e forse anche per il nostro.