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 2025  febbraio 22 Sabato calendario

Bob Wilson, parola d’ordine e solo dieci spettatori per vedere il teatro andare a fuoco

Il luogo, tenuto gelosamente segreto, è l’ultimo piano di un edificio nella Bowery, il quartiere più povero di New York. Il controllo è assicurato da una specie di parola d’ordine. L’uomo di guardia, diffidente, permette di entrare ma non di salire. Si aspetta in una stanza foderata di carta colorata, incollata ai muri, come tanti manifesti su cui non c’è scritto niente. Da qualche parte l’uomo riceve un segnale. Allora rimuove un asse di legno compensato, mostra un montacarichi e dice di entrare. Prima di entrare bisogna prendersi e portarsi di sopra la propria sedia pieghevole. Il montacarichi si apre su un vasto salone. Il pavimento di legno lucido fa pensare a uno studio di danza. I grandi fogli di carta bianca appesi a una delle pareti suggeriscono lo studio di un architetto. Costumi e maschere ammucchiati in un angolo ricordano che questo è un teatro. Nella parte in ombra, a sinistra del montacarichi ci sono, zitte e in piedi, circa trenta persone, due ragazzini che respirano forte per la fatica di non muoversi e di non correre, un signore anziano che sembra un ex insegnante, o un impiegato cecoviano. Gli altri, appena li si vede meglio, nella penombra, sembrano quello che sono, attori. Nella parte in luce vi sono molte sedie, sparse sul pavimento ben lucidato. Guai a toccarle. Sono tutti spazi segnati per i movimenti degli attori. Dieci sono le persone ammesse a «verificare la prova» (l’espressione è del regista, «disegnatore e drammaturgo» come chiama se stesso, in questa occasione).
Lui viene avanti subito, pullover, jeans e stivali, capelli corti e occhi che non guardano mai niente in particolare. Ricorda un medico, un tipo di specialista, non il teatro. Appena lui compare, dal brusio si passa nella frazione di un attimo, al silenzio. Ma il silenzio è ancora «occupato» (di nuovo, una sua espressione) dal respiro troppo pieno e troppo ansioso dei due ragazzini. Aspetta qualche altra frazione di secondo, e finalmente c’è il silenzio che lui desidera. Il silenzio, sta per spiegare, è concavo, è vuoto. Dentro non ci deve essere niente. Il drammaturgo è colui che dispone suoni e oggetti dentro il silenzio. Il «pubblico» (le dieci persone ammesse) diventano subito la sua classe, con un sorprendente adattamento istantaneo di ciascuno. Gli attori sono materiali, pedine, come assistere a una partita di scacchi con pezzi grandi come persone. Ma prima bisogna insegnare.
È il modo di fare il teatro di Bob Wilson, che in questa segretezza da culto sta preparando per La Fenice di Venezia la sua Medea.
Bob Wilson parla piano, in fretta, preciso. Prima di parlare vuole che ci alziamo in piedi e andiamo a fare cerchio intorno a lui, vicini ma non tanto vicini. Non intende alzare la voce e non lo farà mai, né con il pubblico né con gli attori, che rispondono a cenni brevissimi, sospiri, sillabe, movimenti degli occhi. Medea è in greco antico, greco moderno e inglese, spiega Bob Wilson, vagamente infastidito come lo sono sempre gli specialisti quando devono introdurre i laici a qualche cosa che non sanno, ma che si dovrebbe sapere.
«Perché in greco antico, in greco moderno e in inglese? Perché ho trattato il testo come si tratta un restauro archeologico. Sono in greco antico i testi originali. Sono in greco moderno quelli attendibilmente ricostruiti. La differenza di suono deve essere nitida, come lo sarebbe il colore nel rifacimento di un muro. Sono in inglese le parti mancanti o le connessioni che prima non c’erano e che non ci sono mai pervenute». Bob Wilson, calmo e veloce, introduce la sua classe al concetto e poi, con un solo passo delle gambe lunghissime, sposta il gruppo di fronte alle pagine appese al muro. Usa il pennarello e gli bastano pochi tratti per il disegno. Ogni disegno è una scena.
«Prologo», annuncia con il suo modo di guardare nel vuoto, puntando gli occhi gatteschi senza uno speciale interesse per gli altri. Disegna una linea (prato) una montagna (precipizio) un albero (luogo di riflessione) ancora una linea-prato.
Ciascun punto è indicato con nastro adesivo anche sul pavimento. «Atto primo, quattro scene diverse. Il concetto è di riprodurre a teatro il senso della zoomata nel cinema». Con pochi tratti dimostra: nella prima scena la casa di Giasone è lontana, si vede sul fondo, e in primo piano vediamo cinque colonne, forse di un tempio. Nella seconda scena le colonne sono tre e la casa molto vicina. Nell’ultima scena siamo sulla porta, tra due sole colonne. In rapida successione i disegni compaiono, veloci come cartoni animati. Corpo, viso, espressione del regista, invece, restano immobili.
Ma prima che inizi la prova e che gli attori siano liberati dal nodo di immobilità e di silenzio al quale i gesti del regista li ha consegnati, c’è la spiegazione del fuoco. In quel momento il volto di Wilson si anima, come deve essere accaduto per Antonin Artaud quando per la prima volta ha esposto la sua teorìa della «peste come teatro». Alza le mani, ma non come un entusiasta, le alza in modo tecnico, come un direttore d’orchestra. E dice: «Il fuoco divamperà, dal fondo si vedrà Giasone correre contro le fiamme, preso tra le fiamme lui stesso. Sarà come se il teatro andasse a fuoco. Anzi sarà l’incendio del teatro».
Tace e torna alla sua compostezza protestante, braccia lungo il corpo e occhi che non guardano, espressione mite e fermissima. Poi batte le mani, che vuol dire: gli spettatori lontano. Vengano gli attori e cominci la prima scena del prologo.
Una porta su due cavalletti è il tavolo di regia. Una ragazza in stivali detta le posizioni, impartisce ordini, con un sottotono che dà l’impressione di un testo scritto. Ai suoi comandi i corpi degli attori si materializzano oppure scompaiono dal punto prestabilito, con gesti esatti. Ma la perfetta linearità -il disegno e i comandi dell’architetto che crea teatro come se utilizzasse oggetti componibili – lascia vedere (o intravedere, attraverso la sequenza di frammenti, di schizzi, di queste prove) che è in corso una costruzione complessa. Sembra facile solo per la grazia con cui ogni movimento è condotto.
Questa costruzione è carica dei suoi segni originali ed è carica di segni nuovi. Medea – interpretata da una attrice negra – è molto più fredda della Medea classica. Ma il suo essere donna e negra carica in senso moderno la vicenda della donna che reclama i suoi figli, e li ottiene a costo di ucciderli. La tensione – o il furore – viene scaricata dalla dizione delle battute, o dai gesti degli interpreti, nel nesso che lega un personaggio agli altri, nel rapporto con la scena, nella posizione che un corpo prende dentro uno spazio e in relazione agli oggetti. Raramente la voce viene utilizzata al di sotto o al di sopra dei toni intermedi, come se avvenisse una rilettura del dramma attraverso la tolleranza della cultura – che ha ormai stabilito le sue distanze dall’emozione – o tenesse conto della impassibilità tipica di un mondo di comunicazione di massa.
Ciò che di tremendo deve avvenire, invece di esplodere in voci concitate, si realizza nel progressivo espandersi di eventi visivi. Lo stile di Bob Wilson, così rigorosamente basato sul disegno, chiede ritualizzazione. Per questo ogni scena è scandita come le parti di una liturgia che è coordinata da un senso, ma separata in tanti momenti esemplari, ciascuno col suo senso, che è soprattutto evidente nell’insieme dei gesti. Parole, fiati, suoni, aggregazioni o scansioni di voci, hanno la stessa funzione che hanno le ombre per dare volume agli oggetti. Le tre colonne sonore, il greco antico, il greco moderno e le brevi parti in inglese, accentuano questa funzione, di suono come materiale visivo.
Con implacabile cura filologica Wilson ha stabilito che le differenze – specialmente fra i due “toni” del testo greco – vengano nitidamente indicate e dunque ben percepite dal pubblico. Alle parti in inglese viene affidato un ritmo diverso, più dimesso e più rapido, come se il personaggio diventasse voce fuori campo e narratore di se stesso. Ignoro se si tratti di tempi affrettati necessari solo per il montaggio delle prove. Spero che questa variazione (l’uso dell’inglese come lingua narrante, non come recitato) resti nell’edizione finale perché stabilisce un meccanismo in più per allontanarsi e avvicinarsi al testo, cosi come la tecnica dello «zoom» (la casa lontana, la casa vicina, le colonne in prospettiva che aprono o stringono l’immagine) determina un variare continuo di rapporti con la scena che è certamente nuovo a teatro.
Non ho visto l’incendio, naturalmente. Ombre nere fuggivano contro una semplice parete bianca, spingendosi avanti coi movimenti di incubo (la camminata sul posto dei sogni angosciosi e dei mimi). Ma le braccia levate di Bob Wilson, in gesti successivi e sempre più duri, indicavano il salire e l’espandersi delle fiamme, al modo in cui un compositore sente la musica che gli strumenti non stanno ancora suonando.
Poi luci accese, tutti fermi, tentando di controllare il respiro affannoso e di mantenere l’inespressiva immagine degli attori in attesa.
Bob Wilson, dopo queste quattro ore di prova, abbassa le braccia, freddo, estraneo, come all’inizio, piuttosto un esaminatore che un autore partecipe. Il suo voltare le spalle ha l’effetto del sipario che cala. Tutti vanno a vestirsi. Wilson è voltato verso un’altra parete, verso un’altra striscia di carta bianca. Traccia segni che riguardano Golden Windows, un suo lavoro che sta preparando per Kassel. E disegna – forse divertito, forse compiaciuto, ma con la stessa assorta intensità di architetto insegnante – una scena del Parsifal, la sua prima regia operistica. Come al solito ritocca col pennarello, aggiunge alle linee rigide un tocco di grazia. La prova per oggi è finita. Ma si prova ogni giorno. La Medea di Bob Wilson sarà rappresentata a Venezia nel settembre del 1982.