La Lettura, 23 febbraio 2025
Populista o riformatore I volti di Bergoglio.
I cattolici sono in ansia per la salute di Papa Francesco, ricoverato al policlinico Gemelli. Ma non cessano per questo le discussioni sul suo magistero. Per esempio Loris Zanatta, docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna, nel libro Bergoglio. Una biografia politica (Laterza), avanza forti riserve sulle posizioni del Pontefice da un punto di vista laico e liberale. A suo avviso la rivoluzione di Francesco è in realtà un «salto indietro» verso una Chiesa antimoderna, ispirato dalla cultura peronista argentina. Per approfondire la questione abbiamo chiamato Zanatta a discutere con Luca Diotallevi, professore di Sociologia all’Università di Roma Tre, e con Daniele Menozzi, docente emerito di Storia contemporanea alla Normale di Pisa.
LUCA DIOTALLEVI – Tra le reazioni del cattolicesimo alla modernità possiamo distinguere quattro posizioni. Ci sono quella intransigente antimoderna e quella modernista, di orientamento opposto. Poi c’è l’«intransigentismo moderato» di chi tenta di combattere la modernità con i suoi stessi strumenti. E infine c’è chi vede nel mondo moderno non soltanto rischi, ma anche opportunità positive, come pensavano Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni. La posizione di Papa Francesco va ricondotta al terzo indirizzo: una lotta alla modernità, condotta con le armi della modernità stessa, che ha effetti non voluti di contributo alla modernizzazione. Così ha agito appunto in Argentina il regime di Juan Domingo Perón, ostile alla modernità, ma incline a utilizzarne gli strumenti, come i mass media e i sindacati.
Come si colloca in questo quadro il Concilio Vaticano II?
LUCA DIOTALLEVI – In quella sede prevale la linea di Paolo VI, che vede nella modernità un’occasione positiva. I suoi tre successori più rilevanti sono però espressione di realtà in cui le ragioni nazionali fungono da freno alla modernizzazione: la Polonia per Giovanni Paolo II; la Baviera per Benedetto XVI; l’Argentina nel caso di Francesco. Con loro nella Chiesa postmontiniana torna l’intransigentismo moderato che intende mettere le briglie alla modernità. Tuttavia, mentre Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger accolgono l’istanza dei diritti e della libertà personale, Jorge Mario Bergoglio ha un’impostazione assai più comunitarista, fondata sull’aspirazione all’armonia sociale e sul mito del popolo cattolico. Una visione coltivata da una parte della Compagnia di Gesù, come sottolinea Zanatta, ma diversa da quella di gesuiti aperti al dialogo con la modernità come Henri-Marie de Lubac, Karl Rahner, John Courtney Murray e Carlo Maria Martini.
DANIELE MENOZZI – Zanatta identifica la modernità con la rivendicazione di indipendenza del singolo dalla tutela dell’autorità ecclesiastica. Il Vaticano II fece i conti con questo fenomeno, ma sulle modalità del necessario dialogo con il mondo moderno non c’era accordo. La maggioranza dei padri conciliari voleva costruire una «cristianità ammodernata»: una società diversa da quella sacralizzata del passato, disposta a riconoscere la libertà religiosa, ma non la piena autonomia dell’individuo rispetto alla legge naturale di cui la Chiesa è depositaria. Una linea minoritaria era quella che riconduceva lo scontro con il mondo moderno a letture della Sacra Scrittura storicamente condizionate, le cui incrostazioni avevano impedito un dialogo costruttivo: si trattava dunque di cogliere i segni dei tempi per fare emergere un’intelligenza del Vangelo capace di promuovere, nel rapporto della Chiesa con l’uomo di oggi, valori come la pace e la fratellanza universale.
Quale posizione ha prevalso?
DANIELE MENOZZI – I Papi postconciliari, da Paolo VI a Benedetto XVI, hanno perseguito, con diverse declinazioni, l’obiettivo della cristianità ammodernata. Ma nel frattempo l’allontanamento dell’uomo moderno dalla Chiesa non si è ridotto, come voleva il Concilio, ma si è accentuato. Papa Francesco segna un ritorno alla linea minoritaria del Vaticano II: un’immersione nella storia attraverso cui la Chiesa spera di acquistare una migliore comprensione del Vangelo per proporre agli uomini l’incontro con la fede su un terreno comune di valori.
Francesco ha dismesso la visione comunitaria di marca peronista?
DANIELE MENOZZI – Qualunque sia stata la posizione di Bergoglio prima dell’accesso al pontificato, una volta diventato Papa egli ha deciso di abbandonare il rapporto con la modernità intrapreso dai predecessori, che si era rivelato sterile. La sua posizione non è un «salto indietro», ma un ritorno al Vaticano II nella ricerca di una strada per consentire alla Chiesa di svolgere un’azione pastorale efficace.
LORIS ZANATTA – Io ho analizzato l’opera e il pensiero di Papa Francesco da una prospettiva laica, che parte dalla storia peculiare della Chiesa argentina, da cui è scaturita una cultura cattolica ben radicata e fusa con il mito nazionale. Dio e patria si sono combinati nel progetto di restaurare un ordine pervaso di religiosità. E non vedo un distacco di Francesco da questa linea: nel pontificato leggo una proiezione su scala globale della sua esperienza nazionale. D’altronde fino a 76 anni è stato portatore di quella visione e non poteva distaccarsene d’un tratto.
Approfondiamo il suo rapporto con il regime di Perón.
LORIS ZANATTA – Il peronismo è stato il braccio secolare del mito nazional-cattolico argentino. E non si è mai considerato un partito come gli altri, bensì il rappresentante di tutto il Paese. Il suo nemico giurato era e rimane il liberalismo, considerato il frutto del razionalismo illuminista, a sua volta un effetto, magari indesiderato, della Riforma protestante. Bergoglio si è riconosciuto nella visione del peronismo come movimento del popolo cattolico in guerra con le ideologie straniere e i ceti coloniali, cioè la borghesia. L’ordine politico, a suo avviso, è l’espressione di un’unità culturale – Dio, patria e popolo – fondata sulla fede. E da Papa continua a predicare questa visione tipica della Controriforma. Non a caso la storia argentina è caratterizzata da violenza e autoritarismo, derivanti da una concezione della politica come scontro tra il bene e il male, il popolo e l’antipopolo.
Come influisce invece il retroterra gesuitico di Bergoglio?
LORIS ZANATTA – Nella Compagnia di Gesù convivono scuole diverse. Quella a cui appartiene Papa Francesco non rinuncia all’idea della conquista di tutte le genti alla fede. Ci si può adattare alle più diverse situazioni, ma il fine resta una società armonica allergica al pluralismo. Bergoglio sta al liberalismo come Wojtyla stava al comunismo: lo considera un eterno nemico, il frutto avvelenato della secolarizzazione che corrompe il popolo di Dio. La «rivoluzione» di Francesco è un «salto indietro» generato dalla nostalgia per una purezza primigenia oggi rintracciabile nelle periferie del mondo.
Quindi è ostile alla modernità?
LORIS ZANATTA – Senza dubbio, anche se, come nota Diotallevi, vuole combatterla con le sue stesse armi. Ma dubito che questo indirizzo abbia favorito una modernizzazione peculiare. Il trionfo del peronismo in Argentina ha al contrario generato insuperabili difficoltà a fare i conti con la modernità.
E il Vaticano II?
LORIS ZANATTA – Ho l’impressione che in America Latina il Concilio sia stato interpretato soprattutto in chiave di riscatto del sogno di realizzare il regno di Dio. Una visione sacralizzata della storia, di cui Bergoglio è partecipe.
Eppure è considerato di sinistra.
LUCA DIOTALLEVI – A questo ha contribuito lo sdoganamento del Pontefice operato da figure come Eugenio Scalfari e Fabio Fazio. Nel peronismo non è decisivo il discrimine tra destra e sinistra, poiché al suo interno entrambe le tendenze sono presenti e si sono anche combattute. Quello che conta è invece l’opposizione tra il basso e l’alto, tra il «popolo» e l’«élite». La sinistra italiana, moralista e populista, può quindi essere portata a percepire come vicino a sé un Papa portatore di questa concezione come Francesco. Bisogna inoltre considerare che nel peronismo alcuni tratti della modernità francese, come la sovranità del popolo, vengono recuperati, mentre lo scontro radicale è con la modernità anglosassone e le «società aperte».
Che rilievo ha tale distinzione?
LUCA DIOTALLEVI – Nel Vaticano II esercita una forte influenza il cattolicesimo di lingua inglese: nella dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa c’è l’impronta del gesuita nordamericano John Courtney Murray. E il dialogo con la modernità anglosassone viene ripreso da Wojtyla e da Ratzinger. Bergoglio si muove in una direzione diversa: il suo mito del popolo non ha spazio in una visione per cui la coscienza può volgersi al bene soltanto nella libertà e conserva i suoi diritti anche nel caso di una coscienza erronea (come insegna il Concilio). Non stupisce che la sinistra italiana, per la maggior parte assai poco liberale, trovi forti elementi di affinità con la cultura di Bergoglio, per molti versi più vicina all’eredità di Pio XII (e Leone XIII) che a quella del Concilio.
DANIELE MENOZZI – Secondo me non si può prescindere dalla rappresentazione che Francesco dà di sé. E il discorso pubblico di Bergoglio nega che la Chiesa oggi possa impegnarsi nella ricostruzione di una cristianità. Chi lo pensa, aggiunge il Papa, svolge un’azione pastorale inefficace. Inoltre Francesco rifiuta l’idea che nella Chiesa possa esserci una contrapposizione tra conservatori e progressisti. La categoria a cui si richiama è piuttosto quella di riforma.
Con quali contenuti?
DANIELE MENOZZI – La riforma si esplica sia sul piano interno sia nel rapporto tra Chiesa e società. Bergoglio ha compiuto atti che hanno cambiato il volto delle istituzioni ecclesiastiche. Ha riformato la Curia, ponendo al vertice della sua struttura il dicastero per l’evangelizzazione dei popoli al posto della segreteria di Stato, quindi con una prevalenza della pastorale sulla diplomazia. Ha impresso un nuovo indirizzo al dicastero per la dottrina della fede, assegnandogli il compito non di emettere condanne, come in passato, ma di promuovere gli studi e il dialogo tra le correnti teologiche: l’armonia di cui parla Bergoglio non è precostituita, nasce dal confronto. Inoltre il Papa ha avviato un cammino sinodale basato sulla tesi che ogni battezzato è corresponsabile nella soluzione dei problemi della Chiesa. Francesco, poi, ha liquidato la distinzione tra liturgia ordinaria in lingua volgare e straordinaria in latino, inventata da Ratzinger nel tentativo illusorio di ricondurre nella Chiesa lo scisma tradizionalista lefebvriano.
Tali iniziative hanno avuto successo?
DANIELE MENOZZI – Se ne può discutere, ma l’intenzione riformatrice è indubbia. Lo stesso vale per i rapporti con la società. Pensiamo alla questione dei «valori non negoziabili». Francesco nega che la legge naturale, valida per chiunque in ogni tempo e luogo, sia il criterio supremo attraverso cui la Chiesa deve rapportarsi con il mondo. A suo avviso è centrale il messaggio del Vangelo: la Chiesa deve diffondere nella società i suoi valori, ma il controllo ecclesiastico sulla vita delle persone non è più proponibile. Si tratta invece di animare cristianamente la vita collettiva attraverso un’intelligenza aggiornata della Scrittura da cui discendono gli appelli alla pace, alla fratellanza universale, alla misericordia. Valori sulla base dei quali la Chiesa può incontrare gli uomini di oggi per cambiare una società nella quale la dignità delle persone è assai poco rispettata.
Tra i valori cristiani c’è anche quello della vita, su cui insistevano Wojtyla e Ratzinger.
DANIELE MENOZZI – Per loro era un principio supremo, da cui derivava la ferma denuncia delle leggi che consentono l’aborto. Nel discorso di Francesco la condanna dell’aborto rimane, ma non ha la priorità assoluta, semmai si accompagna al rigetto della pena di morte e della guerra, anch’esse negatrici della vita. Insomma, può darsi che il concetto di riforma non appartenesse al pensiero di Bergoglio prima che diventasse Pontefice, ma spesso la funzione cambia chi l’assume. Molti Papi nella storia hanno cambiato posizione dopo essere stati eletti.
LORIS ZANATTA – Tra gli scarsi successi ottenuti da Francesco c’è quello di aver ribaltato le accezioni consuete di progressismo e conservazione. Di certo è ostile non solo alla modernità anglosassone, ma anche a quella francese, la quale ha ispirato il liberalismo argentino. È vero che Bergoglio accetta il principio della sovranità popolare, ma in una chiave organicista illiberale, certo non contrattualista. E quando dico agli argentini che in Italia è considerato un progressista, i miei interlocutori trasecolano, perché ricordano le sue invettive contro il matrimonio omosessuale, il divorzio, l’arte blasfema.
Non può essere che abbia rivisto la sua impostazione?
LORIS ZANATTA – Menozzi ha ragione, con la carica si cambia. Ma non così tanto. Bergoglio ha una grande capacità di adattamento, che gli deriva anche dalla flessibilità gesuitica: ai suoi studenti insegnava che bisogna parlare oscuro e avere idee chiare. Del resto è capitato spesso che si contraddicesse. È vero che si dichiara contrario alla restaurazione della cristianità, che del resto oggi sarebbe una proposta fuori del mondo. Ma la sua teologia basata sull’antagonismo tra popolo puro ed élite corrotta rientra proprio nell’immaginario della cristianità. Per lui il cattolicesimo non è una parte del tutto, ma il tutto che unifica le parti. Vede i laici o come cristiani inconsapevoli, da riportare all’ovile, o come il demonio in persona: non ne riconosce la diversità come legittima, perché il compito che si prefigge è superare il conflitto nell’armonia. Se non è cristianità questa…
Eppure diversi laici lo apprezzano.
LORIS ZANATTA – Bergoglio modula il suo discorso a seconda della platea. Quindi coltiva la sensibilità progressista se interviene nell’Occidente secolarizzato, mentre promuove la rigidità dottrinale quando parla nel Sud del mondo, dove l’ideale della cristianità gli sembra minacciato dalle sirene dell’individualismo.
LUCA DIOTALLEVI – Con il Vaticano II e Paolo VI la Chiesa si è confrontata con le società aperte di matrice anglosassone, caratterizzate dal rule of law, dalla rappresentanza, dal mercato, dalla democrazia, dalle istituzioni della libertà responsabile. Molto importante a tal proposito è il discorso di Berlino in cui Benedetto XVI nel 2011 dichiara che la Chiesa non vuole imporre i suoi valori, ma partecipare a una comune ricerca per la definizione dei diritti. Ma questa apertura al liberalismo nella storia del cattolicesimo non è la norma, bensì l’eccezione. Con Francesco si torna alle posizioni consuete di stampo comunitarista, più vicine alla Politica di Aristotele che alle due spade di Agostino. Mentre il Vaticano II vede il conflitto tra poteri come un fattore positivo, che limita l’arbitrio dei governanti, Bergoglio dice – ad esempio – che lo Stato deve garantire a tutti terra, tetto e lavoro, esprimendo una visione alternativa a quella cattolico-liberale che era prevalsa nel magistero.
Francesco non è un riformatore?
LUCA DIOTALLEVI – Non ne metto in dubbio la volontà innovatrice né la fedeltà al Concilio. Tuttavia la sua idea di evangelizzazione ha accenti molto diversi rispetto a Paolo VI. Il punto è che Bergoglio capita in un momento nel quale è l’Occidente ad aver rotto con sé stesso, tant’è vero che produce un’avanzata delle destre sovraniste, a cominciare dagli Stati Uniti. Quindi la chiusura della parentesi di una Chiesa «amica della libertà», che ad esempio porta Bergoglio a dire che non se la sente di negare alla Cina la qualifica di democrazia, coincide con una crisi più generale della civiltà liberale. Nonostante le note ragioni di scontro, per esempio sul tema dell’immigrazione, alcuni elementi stilistici e di contenuto avvicinano il magistero del Papa persino alle posizioni di Donald Trump (si pensi al tema della guerra e al caso dell’Ucraina), proprio perché la contrapposizione tra élite e popolo rompe lo schema fondato sulle categorie di destra e sinistra.
DANIELE MENOZZI – La teologia novecentesca ha scoperto che la cultura occidentale è un mezzo espressivo della fede cristiana, che con essa però non s’identifica. La Chiesa, che per la sua espansione missionaria si era ampiamente appoggiata al colonialismo europeo, capisce così che rischia di non poter comunicare il suo messaggio ai popoli che si sono sottratti al dominio dell’Occidente e ne respingono l’influenza.
Per questo Francesco privilegia il Sud del mondo?
DANIELE MENOZZI – Mentre Ratzinger s’illudeva che l’espressione occidentale del cristianesimo avesse una portata universale, Bergoglio si rende conto che la Chiesa, se vuole parlare a tutto il pianeta, deve deoccidentalizzare il suo linguaggio e il suo pensiero, mantenendo fermo il valore del Vangelo. Del resto i cattolici diminuiscono in Occidente a aumentano in Africa e in Asia. Francesco ha avviato un processo di cambiamento alla ricerca di nuove forme di evangelizzazione, ma non ha abbandonato l’eredità occidentale: per esempio ha sempre difeso il principio della libertà religiosa.
E la sua linea geopolitica?
DANIELE MENOZZI – In sostanza è la riaffermazione della tradizionale autonomia della Chiesa. Neppure Pio XII aveva mai accettato di farsi cappellano dell’Occidente. E oggi Bergoglio segue una politica imperniata sul dialogo, che sollecita processi di pacificazione secondo l’insegnamento del Vangelo. Non propone un’idea di cristianità ormai tramontata, ma un percorso di convivenza tra i popoli alternativo alle tendenze oggi in voga, dall’imperialismo putiniano al bullismo trumpiano.
LORIS ZANATTA – Il «terzomondismo» di Bergoglio sarà probabilmente la sua eredità più solida, anche perché nella Chiesa gli equilibri stanno da tempo cambiando a favore dei Paesi poveri. In Francesco il distacco dalla matrice occidentale del cristianesimo è praticato e teorizzato con coerenza. Nei suoi discorsi l’Occidente diventa un punto di riferimento quasi esclusivamente negativo.
D’altronde la solidarietà atlantica è oggi in forte crisi.
LORIS ZANATTA – Sì, ma con Bergoglio viene svalutata proprio l’idea di una civiltà nutrita sia dal cristianesimo sia dall’illuminismo, nella quale fede e ragione possono dialogare, come dicevano Paolo VI e Benedetto XVI. La modernità cattolica di Francesco, frutto della tradizione ispanica, è ostile all’illuminismo. Ciò traspare anche dai suoi interventi in apparente sintonia con i valori liberali, per esempio contro la pena di morte. Per lui la ragione occidentale minaccia la spontanea religiosità delle genti, mentre apprezza il populismo russo e la matrice confuciana del comunismo cinese. In fondo la sua è una proiezione globale della «terza posizione» peronista che, sulla scia del fascismo italiano, si opponeva alle plutocrazie liberali come al marxismo ateo.
Il Papa banditore di una terza via?
LORIS ZANATTA – Il peronismo affermava di ispirarsi alle encicliche papali. E la geopolitica di Bergoglio ne è l’ideale prolungamento. Il Papa pensa che i Paesi religiosi del Sud del mondo possano unirsi in un vago sincretismo spirituale in nome della triade Dio, patria e popolo, minacciata di erosione dall’universalismo liberale cosmopolita e miscredente.
Eppure Bergoglio si richiama anche ai padri democristiani dell’Europa.
LORIS ZANATTA – È un’altra dissimulazione. Non li aveva mai nominati prima di essere eletto Papa. Anzi considerava la Democrazia cristiana un peccaminoso cedimento alla modernità liberale. È vero che Francesco reclama la libertà religiosa, anche se nei Paesi islamici lo fa con molta timidezza, ma la civiltà occidentale significa anche pluralismo e diritti individuali. La concezione bergogliana del «poliedro» valorizza le differenze tra i diversi popoli, ma non all’interno dei singoli popoli. Teorizza quindi una «comunità organizzata» in una logica che può spingersi fino a considerare la Cina attuale una democrazia.
Che effetto ha avuto il pontificato di Bergoglio sulla diffusione della fede?
LUCA DIOTALLEVI – I suoi anni hanno coinciso con un’accelerazione della crisi del cattolicesimo, a cui corrisponde la forte diffusione delle nuove spiritualità, di una religione fai-da-te. Non siamo dunque in un’epoca di trionfo della laicità, ma le difficoltà della Chiesa proseguono sotto la pressione del boom di una religione a bassa intensità. Il pontificato di Francesco non ne è stato certo la causa, ma certamente non si è sinora dimostrato un buon antidoto.
Però il Papa ha un notevole successo mediatico.
LUCA DIOTALLEVI – Sì, lo abbiamo visto intervenire anche al festival di Sanremo. Oggi le autorità religiose si vanno trasformando in celebrità che attirano audience più che sfidare le coscienze. Questo adattamento del Papa a una religione di bassa intensità, cominciato dal pontificato di Wojtyla, non fa che incentivare la secolarizzazione.
E la libertà religiosa?
LUCA DIOTALLEVI – I rapporti attuali del Vaticano con la Cina, la Russia e i Paesi islamici testimoniano l’assoluta negoziabilità di tale principio da parte di Francesco. Quanto all’idea di trasmettere la fede in culture diverse, essa è antica quanto il cristianesimo, ma oggi come sempre non abbiamo alcuna garanzia a priori del fatto che gli elementi essenziali del Vangelo siano traducibili in tutte le società. Come diceva Paolo VI il Vangelo «sconvolge», non sempre cementa il preesistente. Se poi si assume come referente polemico l’orizzonte culturale – non esclusivo, ma certamente importante – in cui si è espresso il cattolicesimo nel passato, il mix di diritto romano, ellenismo e cristianesimo (per dirla con Ratzinger), tutto diventa più difficile. Si fa fatica a realizzare traduzioni diverse, se si combatte una delle poche almeno in parte riuscita, non senza limiti e colpe, ma neppure senza successi cui ispirarsi.
DANIELE MENOZZI – Non mi pare che Francesco consideri negoziabile la libertà religiosa. L’ha fatta inserire anche nella dichiarazione di Abu Dhabi che ha siglato nel 2019 con il grande imam della moschea di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib. Quanto alla Cina, la Santa Sede cerca di incentivare la presenza cristiana in quel Paese per ottenere maggiore tolleranza. Si può dubitare della sincerità di Bergoglio, ma non negare che oggi il Vaticano affermi la libertà religiosa, anche come diritto a non professare alcuna fede.
E il distacco dall’Occidente?
DANIELE MENOZZI – Il problema è come tradurre la rivelazione in culture diverse dalla nostra, nella nuova consapevolezza che il Vangelo cambia nel corso del tempo, un’acquisizione decisiva che cambia il rapporto della Chiesa con il mondo rispetto alla dottrina tradizionale. Anche i dati sociologici relativi alla pratica religiosa – la frequenza alla messa, la partecipazione ai sacramenti, l’andamento delle vocazioni – non sono indici della fede cristiana, che è un fatto interiore, non rilevabile con strumenti quantitativi. Francesco distingue tra il secolarismo, la tendenza a espungere la religiosità da ogni dimensione della vita, e la secolarizzazione, che può anche costituire una via per riappropriarsi, da parte dei fedeli, di aspetti della spiritualità che la Chiesa aveva sottovalutato. Di qui la spinta del Papa a intavolare un dialogo anche con i non cattolici per trovare un terreno d’intesa volto alla costruzione di un mondo migliore.
LORIS ZANATTA – A me pare che la sua provenienza dal cattolicesimo argentino, trionfalista e in passato assai popolare, impedisca a Francesco di percepire i rischi che implica il ritorno delle religioni sulla scena pubblica, da lui auspicato. Nei suoi discorsi al Sud del mondo la giusta distinzione tra secolarismo e secolarizzazione, richiamata da Menozzi, tende a sfumarsi. E la politica religiosa da lui invocata rischia di tradursi in movimenti e regimi che, unendo fede e cultura, vogliono imporre un’identità nazionale forte a discapito delle libertà individuali. Sta già accadendo con il nazional-islamismo, il nazional-induismo, il nazional-buddhismo, la nazional-ortodossia russa. Fenomeni rispetto ai quali la laicità occidentale, che Bergoglio non apprezza, rimane un bastione irrinunciabile.