La Lettura, 23 febbraio 2025
Charlie Parker La tragedia in nero di un jazz ribelle.
Quando il 12 marzo 1955 morì a casa dell’amica mecenate di jazz Pannonica de Koenigs-warter (1913-1988), il coroner disse che quell’uomo gonfio e grasso, dal volto emaciato e dalla vita randagia, consumata da eroina e alcol, sembrava avesse almeno trent’anni in più dei suoi reali 34. Il sassof0nista Charlie Parker (1920-1955) – inarrivabile improvvisatore, fra i più grandi jazzisti di sempre e uno dei padri fondatori del Bebop – ebbe una vita brevissima, ma nel suo breve tempo rivoluzionò il linguaggio della musica afroamericana. Lo studioso Wilfrid Mellers sostenne che Parker con Louis Armstrong (1901-1971) fosse l’unico jazzista per il quale la parola genio era appropriata. Dopo la morte di Parker, il pianista Lennie Tristano (1919-1978) disse che se Parker avesse voluto invocare le leggi sul plagio, avrebbe potuto accusare praticamente tutti coloro che avevano inciso jazz dopo di lui. Lo confermava il leggendario contrabbassista Charles Mingus Mingus (1922-1979): «I musicisti aspettavano che uscisse il suo nuovo disco per sapere cosa avrebbero suonato».
Suonava (e viveva) al massimo, Parker, le sue frasi musicali avevano un respiro nervoso e scattante. Unico. E tragico: sapeva estrarre dal sassofono contralto (anche) una ferocia prima di lui mai raggiunta. Era un lupo solitario. Nei flussi dei suoi assoli tormento ed estasi andavano di pari passo (lo si ascolti per esempio in Lover Man incisa per la Dial il 29 luglio 1946: da brividi). Qualcuno disse che Parker riusciva a esprimere il senso di una realtà nera, cupa, sinistra, che appartiene al mondo degli espressionisti, ma con la velocità dei futuristi. Mise da parte tutto ciò che poteva rassicurare l’orecchio abituato agli stili precedenti. Gli piaceva farsi chiamare Bird (è il titolo del film, peraltro infelice, che gli dedicò Clint Eastwood nel 1988, Oscar per il sonoro), «uccello», perché amava la libertà e la voce di quegli animali al punto da comporre brani quali Chasin’ the Bird, Ornithology, Yardbird Suite, Bird of Paradise. Parker, fuori da ogni previsione immaginabile legata alla sua biografia, amava anche la classica. Quella di Béla Bartók (1881-1945) più di tutte, ma era un appassionato di Igor Stravinskij (1882-1971) e chiese a Edgar Varèse (1883-1965) di dargli delle lezioni: voleva imparare a comporre. In una lettera gli scrisse: «Mi prenda come un bambino e mi insegni la musica». Ma morì qualche giorno dopo.
Quest’anno ricorrono non solo i 70 anni dalla morte (12 marzo) di Parker, ma anche gli 80 dalla registrazione (26 novembre 1945 per la Savoy Records) di Koko, la sua prima incisione in veste di leader, con la quale si usa datare l’inizio del Bebop, sessione cui partecipò anche un giovanissimo Miles Davis (1926-1991). Bird la compose utilizzando come base armonica la sequenza di accordi dello standard Cherokee di Ray Noble (1903-1978). La tecnica della «sovrascrittura» di nuove linee melodiche su armonie preesistenti, infittite e rese il più complicate possibile, nel Bebop era una prassi usata anche per costruire provocatoriamente il nuovo sul vecchio. Qualche esempio: sugli accordi del classico How High The Moon Parker compose Bird Lore e Ornithology, trasformò poi Indiana in Donna Lee, poi Lover Come Back To Me in Bird Gets The Worm, la gershwiniana I Got Rhythm in Salt Peanuts e Anthropology.
Ma, oltre a ciò, cosa cambiò con il Bebop, alla cui nascita nei locali newyorkesi della 52° Strada contribuirono Dizzy Gillespie (1917-1993), che con Bird formò la coppia, Kenny Clarke (1914-1985), Max Roach (1924-2007), Thelonious Monk (1917-1982) – poi si aggiunsero Billy Eckstine (1914-1993), Art Blakey (1919-1990), Earl Hines (1903-1983), Dexter Gordon (1932-1990), Sarah Vaughan (1924-1990)?
«Fu una rottura molto, molto forte. Contundente, direi. Il jazz – dice a “la Lettura” Enrico Rava (1939), il nostro jazzista più noto a livello mondiale – fino a quel momento era musica, sempre d’arte, ma popolare. La si ballava. Ai suoi concerti, Benny Goodman veniva acclamato e atteso all’uscita del club come una star. Con il Bebop il jazz perse quel suo essere popolare e la sua funzione coreutica, per diventare musica d’arte elitaria, di quelle che richiedono anche capacità d’ascolto. La tecnica venne portata a livelli prima inimmaginabili. Ciò che trovo straordinario è che i bopper stavano facendo qualcosa che prima non esisteva e il pubblico, a sua volta, ascoltava qualcosa che non aveva mai sentito prima. Capita con tutte le musiche nuove, ma con il Bebop il cambio fu particolarmente profondo».
Negli anni Settanta Philippe Carles e Jean-Louis Comolli nel libro Free Jazz Black Power, sostenevano che con il Bebop i musicisti neri volessero espellere le tossine che l’industria dei bianchi gli aveva imposto. Avevano raggiunto uno dei loro obiettivi: obbligare il mondo bianco ad amare o detestare la musica nera, ma non più a considerarla divertimento. Con questo atteggiamento anticommerciale, i bopper incenerivano tutto ciò che i jazzmen della generazione precedente avevano costruito. Parola d’ordine: demolire.
Commenta Rava: «D’accordo, anche se ciò che facevano Parker e Gillespie era comunque figlio di ciò che c’era prima. Parker veniva da Lester Young (1909-1959) e se facciamo suonare un disco a 33 giri di Young a 45, ci sembrerà di ascoltare Bird. Allo stesso modo, accelerando un 33 giri di Roy Eldridge (1911-1989) sembrerà Dizzy Gillespie...». Altre caratteristiche tipiche del Bebop, oltre alla velocità e alla frenesia esecutive, a una generalizzata indifferenza di fronte al pubblico, a un’esplosione ritmica che conferirà nuovamente alla percussione la sua funzione atavico/africana (e cubana), ci fu un’iniziale «disoccidentalizzazione» del jazz che esploderà negli anni Sessanta con il Black Power, Malcolm X, le Pantere Nere. Il Bebop divenne anche uno slang fatto di parole veloci, ritmiche, sincopate (Rap, Hip-Hop, Trap...: è la storia che si ripete...): in molti usarono il canto scat. L’intervallo musicale più usato fu quello «dissonante» di quinta diminuita, l’esposizone dei brani avveniva all’unisono, con due fiati: Dizzy e Bird.
Con il Bebop all’immagine cliché del jazzman divertente (Armstrong in primis) si sostituisce quella del jazzista incompreso e maledetto. Luogo comune, che ha alimentato tanta letteratura (gli scrittori Beat amavano e citavano il Bebop): un maledettismo in cui Gillespie, per sua indole, non rientrava. Ma Parker, Bud Powell (1924-1966) e Thelonious Monk invece sì. La musica dei selvaggi, il jazz degli esordi, con il Bebop divenne così la musica degli sbandati, dei pazzi. Il poeta afroamericano Langston Hughes (1901-1967) in una delle sue rubriche sul «New York Post» scrisse: «Un uomo dalla pelle scura può conoscere solo giorni scuri: il Bebop è la conseguenza di quei giorni. Perciò la vera musica Bebop è esasperata, selvaggia, frenetica, pazza e chi non ha conosciuto quei giorni non la può capire». Citando le sommosse afroamericane del 1943 ad Harlem, scrisse: «È il ritmo della polizia che con il suo manganello picchia sulla testa dei neri che ha ispirato il Bebop (...). Quel maledetto bastone fa Bop, Bop! Bebop!, Mop! Bop!».