La Lettura, 23 febbraio 2025
Sono nato in teatro e faccio suonare le storie del cinema
La sua prima volta in scena fu anche l’ultima. «Alla fine di una replica di Cane e gatto di Paolo e Lucia Poli, mio e zio e mia madre, una sorta di storia del Novecento raccontata a un bambino. Lo spettacolo era dedicato a me, mi portarono sul proscenio a salutare il pubblico. I riflettori, le luci in faccia, la platea buia: mi spaventai. Forse proprio per questo non ho mai desiderato fare l’attore». Figlio e nipote d’arte, Andrea Farri, classe 1982, è diventato invece compositore di colonne sonore per il cinema e la tv. Piuttosto prolifico, all’attivo ha collaborazioni, spesso continuative, con registi come Matteo Garrone, Marco Tullio Giordana, Cristina Comencini, Marco Bellocchio, Carlo Verdone, Roland Emmerich, Matteo Rovere. Al momento, racconta a «la Lettura», sta lavorando al nuovo film di Andrea De Sica, Gli occhi degli altri, con Jasmine Trinca e Filippo Timi, ispirato alla vicenda del delitto Casati Stampa («potentissimo, inaspettato»), mentre ha concluso la colonna sonora per la nuova stagione della serie Petra, dai romanzi della scrittrice spagnola Alicia Giménez-Bartlett diretta da Maria Sole Tognazzi.
Un imprinting unico, il suo.
«Sono cresciuto letteralmente in teatro, in tournée interminabili, da settembre a giugno, con mia madre e Paolo, da una città all’altra, anche in provincia. Era un mondo incredibile, giocoso, fatto di capocomici, attori, pompieri, pupazzi, canzonette. Un universo ormai scomparso che mi ha molto influenzato. Anche le canzonacce, come diceva le chiamava lo zio, scritte da autori che avevano orecchiato la grande opera italiana e i testi letterari dell’Ottocento. Una formazione d’altri tempi».
Popolata da incontri eccellenti.
«A casa si parlava e si viveva di musica, arte, letteratura, cinema. Da piccolo, la mamma mi portava a casa di Attilio Bertolucci, con cui era rimasta molto legata anche quando si era lasciata con Giuseppe (il regista figlio del poeta, ndr). Ricordo i lunghi pomeriggi con lui e la moglie Ninetta. Non avevano nipoti, sono stati i miei nonni adottivi, gli facevo ascoltare le mie creazioni alla chitarra. Mia madre diceva che ero pigro. E lui replicava che il vero artista esce dalla sua pigrizia solo per creare qualcosa. E mi piace ricordare un altro zio, Attilio Veraldi, scrittore e traduttore napoletano. Ho passato tante notti d’estate nel sud della Francia, dove viveva con mia zia, a guardarlo scrivere e a parlare di poesia. Mi diceva: “Non andiamo a dormire stanotte, è così bello vedere l’alba, ti fa sentire che vale proprio la pena di essere vivi”».
Però né il teatro né la letteratura, ma musica e cinema. Perché?
«Sono un autodidatta, ogni volta che vedevo uno strumento mi mettevo a suonare. A 7 anni ho iniziato a comporre con la chitarra, poi sono passato al pianoforte. E mi sono subito appassionato al cinema. Paolo mi portava a vedere di tutto: Alfred Hitchcock, John Ford, Federico Fellini, Roma città aperta, si commuoveva ogni volta nella scena in cui Anna Magnani viene uccisa. Perché piangi, gli chiedevo, è solo un film. Non è un film diceva: è vita vera. Da lui ho imparato a non snobbare nulla, vedevamo Ernst Lubitsch e pure Jurassic Park».
Non ha pensato alla regia?
«L’avevo preso in considerazione, ho fatto l’aiuto regia».
Per chi?
«Roberto Benigni, per La tigre e la neve. Esperienza unica, due mesi isolati in mezzo al deserto con Roberto a mangiare riso bianco e orate. Ho perso dieci chili. È stato illuminante, Benigni è davvero portatore di meraviglia. Su quel set ho conosciuto Nicola Piovani, Tom Waits. Mi è servito molto per capire i meccanismi del cinema, come rapportarsi con i registi».
La prima colonna sonora scritta?
«Un gioco da ragazze di Matteo Rovere, a 25 anni. Ma avevo cominciato da ragazzo. Siccome nessuno mi dava retta, ho iniziato musicando due corti di Jean Vigo, Taris e À propos de Nice: essendo morto, non poteva opporsi».
Per Matteo Garrone ha scritto le musiche di «Io capitano».
«Collaborare con lui è un lusso. Ti riceve nel suo studio tra disegni, fotografie, appunti, sembra impossibile che trovi una sintesi. Che puntualmente arriva, magnifica. Un vero artista. Abbiamo iniziato con le musiche prima di iniziare a girare, sperimentando con i musicisti africani coinvolti nel progetto. E con i due protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall, per cui abbiamo scritto canzoni, lavorando sulle loro voci. Il film ha poi preso forma in sala di montaggio. L’approccio musicale non poteva essere troppo classico, ho mescolato l’elettronica agli strumenti acustici».
Per chi compone per il cinema i maestri sono Ennio Morricone, Nino Rota, Piovani. Vale anche per lei?
«Giganti assoluti. Ci metto anche Franco Piersanti. Artisti diversi ma capaci di raccontare con la musica una drammaturgia. Cosa che l’Intelligenza artificiale non è in grado di fare. A proposito di Rota c’è una bella coincidenza: abbiamo donato l’archivio di Paolo Poli alla Fondazione Cini depositaria anche del suo».
La musica per il cinema negli ultimi anni è cambiata, le suggestioni sono diverse e composite.
«Prima prevaleva uno stile più codificato. La mia generazione è cresciuta con un melange sonoro: io studiavo la classica la mattina, sentivo il rock alla radio, la sera nei locali si ascoltava e si ballava l’elettronica. E anche io sono figlio dei miei tempi».
Come si muove nella fase creativa?
«Amo sperimentare. Uso molto i sintetizzatori analogici degli anni Ottanta. Ogni film ha la sua storia musicale, affronto ogni film partendo da zero, pensando a quale mondo sonoro attingere. Per esempio, per la commedia di Alessandro Genovesi 10 giorni con i suoi, ho fatto suonare a musicisti professionisti gli strumenti giocattolo di mio figlio».
Porta con sé consigli dello zio?
«L’unica cosa che mi ha detto è di fare sempre tutti lavori possibili, perché il nostro mestiere ha origini servili».