La Lettura, 23 febbraio 2025
È ridere l’antidoto al dogmatismo woke.
Come un’abiura. Nel 1999, quasi rinnegando la sua allieva, Pierre Bourdieu accusò Nathalie Heinich di essere vittima di conservatorismo reazionario, di un «populismo scientifico» refrattario all’avanguardia.
Il riferimento era a Le triple jeu de l’art contemporaine e a L’art contemporaine exposé aux réjets. Terzo pannello di questo ideale trittico è Il paradigma dell’arte contemporanea, tradotto nel 2022 da Johan&Levi. Vi si parla dell’arte contemporanea non come di una mera categoria cronologica né come di un genere, distinto da quello classico e da quello moderno. Invece, siamo dinanzi a un paradigma critico ed estetico sovrastorico, caratterizzato da alcuni tratti: gusto per lo scandalo linguistico e per la violazione delle frontiere tradizionali; sostegno soprattutto della ricerca di artisti trasgressivi, che garantiscono ottime risposte in termini di risonanza mediatica; confronto solo con un’élite di iniziati; costruzione di strategie tese a dimostrare che il valore dell’arte non risiede nell’opera in sé, ma nell’economia dell’informazione, in un gioco di «discorsi» sociali e connessioni che ci rendono spettatori di una partita a scacchi di cui ignoriamo le regole; infine, capacità di far parlare, di alimentare racconti, leggende e aneddoti, perché le opere sono pretesti destinati ad arricchirsi di commenti, azioni, parole.
Ideale epilogo di quest’apologo sull’identità della nostra cultura è un controverso pamphlet appena tradotto (Gog). Il titolo scelto, L’ideologia vendicativa, è lontano da quello della versione originaria, Le wokisme serait-il un totalitarisme?. «Non condivido il titolo italiano perché impoverisce il mio discorso», dice in una lunga conversazione Heinich, da anni direttrice di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique).
Siamo dinanzi a un appassionato, sferzante e severo j’accuse contro il «wokismo» (l’uso di woke deriva da to stay woke, «stare all’erta»). Benvenuti a Wokeland, la «terra dell’obbedienza alle mode intellettuali». Gli abitanti sembrano avere nobili propositi: utilizzare un linguaggio più inclusivo, tutelare le minoranze, decolonizzare il passato e il sapere. E, tuttavia, dietro le buone intenzioni, si nasconde un insostenibile dogmatismo: lottare contro le forme di discriminazione delle minoranze etniche, religiose, sessuali e culturali, a lungo oppresse, riconducendo però l’interpretazione della nostra modernità declinante dentro griglie di lettura esclusive. Non priva di assonanze con le logiche sottese al fascismo, al nazismo, allo stalinismo e al maoismo, nascosta dietro la maschera del progressismo, questa filosofia si fonda su alcuni aspetti distintivi: imporre temi obbligatori e divieti terminologici; vittimizzare gli «esclusi»; intrattenere con il mondo un rapporto chiuso, che non lasci spazio a nessuna altra ermeneutica; confondere il registro descrittivo con il registro normativo, sottomettendo «ciò che è» a «ciò che deve essere», non senza interessi di tipo commerciale; ricorrere a una «particolare forma di stupidità», che pretende di «proteggere i più deboli dalla rappresentazione di una realtà inquietante, come se li stessimo proteggendo da quella stessa realtà»; ignorare i contesti; non assegnare rilievo alla cultura storica; applicare a produzioni del passato categorie del presente; disprezzare i «diritti morali» dei classici; un fanatismo basato sulla certezza di detenere il Verbo.
La meta: «Non l’eradicazione rivendicata del dominio, ma piuttosto, ahimè, il suo rovesciamento vendicativo», scrive Heinich, il cui tono indignato è quello, per dirla con Milan Kundera, di una modernista antimoderna. Radicata nella contemporaneità, ma inquieta, critica, divisa, dubbiosa, pronta a resistere alle mode, animata da un pessimismo attivo o da un ottimismo privo di progressismo.
Si considera membro di quella famiglia dei modernisti antimoderni che ha elogiato Kundera?
«Coloro che, in Occidente, provano a richiamare l’attenzione sui pericoli del wokismo mi ricordano quelle voci indipendenti impegnate, in Russia, a parlare dei pericoli dello stalinismo».
L’esergo scelto per il suo libro è proprio di Kundera: «L’uomo sogna un bene in cui il bene e il male sono nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esiste in lui il desiderio di giudicare prima di capire». Muovendo da qui, lei invita a tenere distinti giudizio e comprensione.
«Occorre non confondere due arene. L’arena aperta alla politica, all’opinione pubblica, ai social. E l’arena in cui si collocano le scienze sociali. Le differenze sono invalicabili. Quando si studia un determinato fenomeno, non vuol dire che lo si approvi né che lo si condivida. Il sociologo vuole rendere esplicite rappresentazioni mentali di interpreti e di attori, svelandone le ragioni segrete».
In un tempo che si proclama anti-ideologico, il wokismo riafferma la centralità di un approccio profondamente ideologico.
«L’ideologia non è un problema: ciascuno di noi ha idee in cui crede. Il problema, invece, si pone quando l’ideologia diventa più importante della verità. Il compito di un ricercatore serio dovrebbe consistere nell’interrogare e nel decifrare un evento o una questione, non nell’esibire le cose attraverso filtri e forzature. Durante lo stalinismo, tali equivoci si sono posti in maniera drammatica. Nell’era del wokismo, si ripetono le stesse liturgie. È in atto il ritorno di una visione quasi stalinista delle scienze, che sono chiamate a obbedire a una concezione anti-illuminista. Si pensi a quel che accade nella cultura, nell’università, nei media».
Decisivo, nel wokismo, un indirizzo di normativo: si dice che cosa è consentito e che cosa non lo è.
«I workisti pretendono di dire che cosa sono le cose. Si attengono a un modello di analisi povero. Si limitano ad applicare i concetti di dominazione e potere. L’effetto è perverso: ogni persona è considerata solo come parte di un collettivo, di cui sarebbe espressione. Dunque, non siamo cittadini, ma rappresentati di una comunità. Inoltre, mi sembra davvero ingenuo ridurre la complessità del mondo secondo la logica delle discriminazioni. I rischi: l’impoverimento della libertà di pensiero. Un uomo bianco sarebbe solo voce di una cultura machista. È una filosofia regressiva. Ogni persona detiene un’inviolabile autonomia e diritti specifici. Al di là dell’appartenenza a qualche gruppo sessuale, etnico, sociale».
Secondo alcuni, un apostolato civile. Secondo altri, una minaccia. Secondo altri ancora, una forma di ignoranza. Come definirebbe questa nuova declinazione del revisionismo?
«Il wokismo assolutizza credenze. Certo, sono giuste le lotte contro il razzismo, il sessismo, l’omofobia. Chi potrebbe negarlo? Ma i modi di queste rivendicazioni sono sbagliati. L’ignoranza della storia e il fanatismo stanno prendendo il sopravvento sulla scienza. Invece, occorre tener sempre conto del contesto nel quale una certa situazione si è svolta».
Stiamo assistendo a un risveglio del puritanesimo?
«Si sta imponendo un moralistico e fideistico neo-puritanesimo, fondato su un ingenuo senso della colpa: come se dovessimo sentirci colpevoli di essere maschi e bianchi».
Nel suo libro, lei parla di un «totalitarismo d’atmosfera», cogliendo alcune affinità tra la dottrina «woke» e le dittature del Novecento: reversibilità del bene e del male; negazione delle evidenze; indifferenza verso la verità e volontà di enunciare controverità; capovolgimento dei «fatti» in malafede; rifiuto di ogni moderazione e sfumatura e tendenza all’assolutizzazione.
«Abitiamo un totalitarismo d’atmosfera in cui addirittura certe parole non possono essere pronunciate. Fa scandalo se ci si serve di un termine come “negro”. Certi libri vengono riscritti. Si incoraggia così la censura. Si stigmatizza ciò che non rientra nella cornice del wokismo».
In un capitolo di «L’ideologia negativa», si sofferma sul wokismo nelle arti. Dal teatro al cinema, fino ai musei, autentici campi di battaglia, spesso governati secondo politiche distanti dal rigore museografico, attente a dare rilievo a opere di artisti provenienti dai continenti extra-occidentali. L’obiettivo, invece, dovrebbe essere non illudersi di correggere il passato, ma offrire letture più corrette della storia.
«C’è qualcuno, in Francia, che arriva a sostenere che Pablo Picasso sia stato un macho: perciò le sue opere andrebbero rimosse da ogni pinacoteca. Follie! Il wokismo invade musei e rassegne internazionali. Si curano mostre che celebrano il pensiero woke, senza tener conto delle ragioni strettamente artistiche. Ovunque, donne e artisti scelti in base alla loro origine e al colore della loro pelle. Sono criteri che non dovrebbero in alcun modo guidare le politiche di un direttore di museo o di un critico. Il conservatore di una pinacoteca ha un solo obbligo: non essere inclusivo, ma aiutare a far conoscere al meglio le collezioni custodite nell’istituzione presso cui lavora. Senza negare l’autonomia dell’arte. Senza tradire l’indipendenza della storia dell’arte».
La riflessione sul wokismo potrebbe essere letta come il capitolo conclusivo del suo discorso sul «paradigma dell’arte contemporanea»?
«Forse sì. Ma il wokismo non è d’avanguardia. È conformista. Tende a ripetere le stesse parole, le stesse categorie, rifiutando ogni innovazione. Un critico e un artista intelligenti non possono proclamarsi woke. E non possono attenersi a concezioni tanto oscurantiste. Sarebbe un controsenso. Una banalità».
Qual è il colore di questa moda sempre più diffusa, non priva di nessi con il culto del «politically correct»?
«Il wokismo è nato proprio dal politically correct. È come se avesse sistematizzato istanze emerse con Black Lives Matter, nato nel 2013 negli Usa. Si ritiene che le battaglie woke siano progressiste, mentre la lotta a queste pseudo-dottrine sarebbe conservatrice. Invece, ritengo che si possa essere anti-woke su una base non di destra, ma di sinistra. Riaffermando la libertà del pensiero critico».
L’unico modo per sconfiggere questa deriva di ignoranza, sostiene, è l’umorismo, che è «ostile a ogni totalitarismo». La farsa, la derisione, la parodia: strumenti per ferire a morte la stupidità imperante. Una posizione che sembra rimandare ancora alla lezione di Kundera, il quale, voce critica della Praga oppressa dal regime comunista, aveva considerato l’ironia come un «modo di far vedere l’ambiguità».
«L’unica risposta è l’ironia. Un’arma intellettuale che i wokisti non conoscono: non pensano ad altro che alle proprie aberrazioni. Il riso è una risorsa necessaria. Ma questi anti-illuministi non se ne servono. Sa perché? Perché sono terribilmente ridicoli».