La Lettura, 23 febbraio 2025
Però insisto, i musei vanno decolonizzati
Il museo come un campo di battaglia, un luogo perfetto per contaminare la più classica idea dell’arte: la politologa e attivista francese Françoise Vergès (Parigi, 1952) nel suo saggio in uscita il 28 febbraio per Meltemi propone «un programma di disordine assoluto» che di fatto vuole contaminare l’antica (e asettica) visione di museo con tutte le urgenze della contemporaneità.
Quali battaglie si possono combattere (e vincere) in un museo?
«Battaglie ideologiche, ma anche economiche, sociali e culturali. Le battaglie ideologiche riguardano la missione dell’istituzione, il contenuto delle sue pubblicazioni, mostre, orientamenti generali e impegni. Le battaglie economiche riguardano il bilancio e la sua allocazione, il grado di privatizzazione, il ruolo e il potere dati ai mecenati privati. Le battaglie sociali riguardano stipendi, promozioni, processi di reclutamento, gerarchie razziali e di genere, politiche di diversità, esercizio del potere. Le battaglie culturali riguardano l’attenzione data all’espropriazione culturale, rappresentazioni problematiche».
Dunque, il museo non più come spazio aulico, votato in qualche modo alla celebrazione di un’estetica senza tempo…
«Un museo non è un’istituzione neutrale, è plasmato dal suo ambiente sociale e politico, non può sfuggire alle forze sociali, politiche o economiche che intervengono nella sua vita, è un campo per una battaglia democratica di idee e progetti».
Lei sostiene la necessità di un «mutamento ideologico» dei musei.
«Questa mutazione è già iniziata. I musei da tempo stanno prestando attenzione ai loro pubblici, hanno cercato di soddisfare le diverse esigenze e hanno ascoltato le richieste per ciò che viene chiamato “inclusione e diversità”. Sotto la pressione e le richieste di collettivi anticoloniali, decoloniali, femministi e comunità indigene, hanno esaminato le loro complicità con la colonizzazione, la violenza, il sessismo, il razzismo e le dittature e hanno cercato di rivedere le loro collezioni. Abbiamo avuto mostre su fascismo, distruzione ambientale, dittature, lotte Lbgtqi+ e così via».
Questa mutazione implica anche una politica di ritorni e restituzioni…
«Riguardo ai ritorni e restituzioni, è tutto molto, molto lento, troppo lento. Molto poco è stato restituito se consideriamo la quantità di arte saccheggiata che si trova nei musei occidentali, in particolare l’arte africana. La storia dei ritorni non fa ben sperare per le future restituzioni: il Regno Unito continua a rifiutare di restituire i marmi del Partenone alla Grecia, gli Stati africani, la Cina, il Giappone continuano a chiedere il ritorno dell’arte saccheggiata da decenni...».
La sua è una visione molto negativa…
«Ma per fortuna le cose stanno effettivamente accadendo. Il lavoro critico e di intensa interrogazione degli ultimi tre decenni sulle rappresentazioni razziste, misogine e coloniali – molto del quale realizzato al di fuori delle istituzioni, spesso da gruppi emarginati, artisti e studiosi, e spesso respinto dai musei – ha finalmente trovato spazio all’interno dell’istituzione».
Si può allora dire che la decolonizzazione è cominciata?
«La decolonizzazione è più che cambiare ciò che è sulle pareti o impostare un programma più diversificato. Riguarda anche la giustizia sociale, razziale e di genere. C’è ancora una forte gerarchia sociale e razziale in gioco nel museo. Chi pulisce? Chi fa la guardia? Ci sono ancora dipendenti il cui lavoro è invisibile, sottopagato, non riconosciuto? Storicamente, la decolonizzazione non riguardava solo la costruzione di un nuovo Stato-nazione, ma anche la liberazione dalle catene economiche del capitalismo e dell’imperialismo, l’invenzione di nuove relazioni economiche, la lotta contro la mercificazione delle persone e dell’arte, contro i dettami di un mercato dominato da grandi poteri, la creazione di nuove forme di insegnamento e apprendimento. Riguardava l’abolizione delle relazioni disuguali fondate sulla dominazione. Ma un’istituzione non può compiere questo da sola, il museo non può essere decolonizzato se tutto ciò che lo circonda non è decolonizzato».
Nel suo saggio traccia la storia del Louvre come paradigma della sua teoria: su quali fatti e opere si basa?
«Il Louvre è figlio dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Ma poi, i rivoluzionari, sostenendo che l’arte in Europa e al di fuori dell’Europa era nelle mani di tiranni, hanno proclamato il loro diritto di sequestrarla e portarla nella terra della libertà. Insomma, libera requisizione giustificata e saccheggio. Così Napoleone riportò migliaia di opere d’arte dall’Italia e dall’Egitto, così le sue armate saccheggiarono il Belgio, la Germania. Quando Napoleone fu sconfitto i suoi nemici però cercarono di emulare il Louvre, che divenne un modello del museo universale, avvalorando la convinzione che l’Europa fosse il deposito naturale dell’arte. Centinaia di migliaia di opere d’arte insieme a resti umani, capelli, ossa, teschi, furono saccheggiati per riempire i musei occidentali. Così il 90% del patrimonio africano è finito nei musei occidentali».
Lei si definisce «femminista antirazzista» e «teorica antirazzista»: come le battaglie femministe e antirazziste hanno trovato spazio nei musei?
«Femministe e antirazzisti hanno “forzato” la porta del museo, rivendicando di non voler essere esclusi. Hanno fatto un ottimo lavoro. E oggi, grazie a loro, c’è una generazione, nutrita da tutte queste lotte, che sta facendo un lavoro fantastico in questo momento, in tutto il mondo, affrontando nuove questioni: ambiente, persone transgender, conoscenza indigena, genocidio».
Come giudica le proteste di gruppi e individui all’interno dei musei?
«Le trovo inventive e creative. Attirano l’attenzione su questioni diverse: con quale processo un dipinto vale milioni quando ci sono persone che non hanno cibo a tre strade di distanza dal museo? È normale che un museo riceva denaro da una corporation che contribuisce alla distruzione del pianeta? È legittimo che nel consiglio di un museo ci siano persone con le mani sporche di sangue?».