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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Un prof che ti affascina con la grammatica


Periodicamente, le statistiche internazionali rovesciano sull’Italia una doccia fredda di cattive notizie relative alla cultura degli italiani nel senso che a questa espressione dava Tullio De Mauro: cioè all’aumento continuo, dopo la faticosa vittoria postunitaria sull’analfabetismo strettamente inteso, di nuove e terribili forme di disaffezione per la lettura, per la comprensione dei testi, per quelli che chiameremmo requisiti alfabetici minimi della cittadinanza (giacché anche a questo serve leggere: a esercitare i propri diritti e a comprendere i propri doveri). È l’analfabetismo funzionale, il fenomeno per cui in troppi, oggi, sanno leggere ma non sanno capire nemmeno gli scritti più elementari. Tra i più sovente e tra i più ingiustamente accusati di questa preoccupante deriva culturale c’è la scuola, o meglio precisamente gl’insegnanti che trascurerebbero – dice chi vuol cavarsela in fretta – un’adeguata riflessione sulla lingua, sulla sua padronanza e sui suoi usi. Ma quale sarebbe poi – si chiedono i più attenti e i meno sbrigativi nei loro giudizi – il modo giusto per stimolare questa riflessione?
E mentre, tra gli esperti, c’è oggi chi si preoccupa di argomentare che la grammatica a scuola serve, si fa fatica a capire esattamente quale grammatica serva, tanto che l’escogitazione di un nuovo modo per affrontarla e per insegnarla costituisce ancora un banco di prova per le migliori intelligenze della linguistica italiana (un ampio e pubblico dibattito a più voci si è svolto di recente nel sito internet dell’Accademia della Crusca, grazie a uno spunto dato da Mirko Tavoni e da un suo appassionato Tema del mese, ancora recuperabile, del quale su queste pagine ha parlato Claudio Giunta).
Nel frattempo, c’è chi – sul confine tra pratica esperienza di divulgazione e ingegnosa rielaborazione letteraria – ha provveduto a confezionare, sotto forma di qualcosa che assomiglia a un romanzo sui generis, una rappresentazione suggestiva di quel che l’amore per la lingua e la passione per il suo studio può (o potrebbe) produrre proprio fra i banchi di scuola. Facile, vien da dire, inventare storie in cui un fascinoso professore appassiona i suoi scolari alla letteratura, alla poesia, al teatro o alle belle arti. Meno banale immaginare una situazione in cui un normale insegnante italiano diventa promotore, in una normale (e ovviamente multietnica) classe di scuola superiore, di una Accademia di arte grammatica fondata su un programma in apparenza temerario: «Voglio dirvelo chiaro e tondo, una volta per tutte. La grammatica è una gran figata. È affascinante, intrigante, è stilosa, è alla moda, di tendenza: è trendy. Per essere più precisi, la grammatica è glamour».
La frase è pronunciata dal protagonista dell’ultimo libro di Giuseppe Antonelli, Il mago di parole, sorta di rivisitazione in chiave linguistico-grammaticale della mitica figura dell’insegnante carismatico, trascinatore delle sue classi, maestro (a modo suo) anche di vita attraverso lo svolgimento di un normale programma del curricolo. L’insegnante, nel caso specifico, è un prof d’italiano, che si presenta qui attraverso la voce dei suoi alunni, spettatori prima perplessi, poi sempre più coinvolti e infine entusiasticamente conquistati dal suo modo di introdurli alla grammatica, alla lingua, alla linguistica.
Quello di Giuseppe Antonelli non è, fortunatamente, il classico libro del professore universitario che riversa nella pagina la propria esperienza di docente immaginando, chissà perché, che essa debba per forza interessare ai suoi lettori. L’autore si cala qui, invece, nei panni di un insegnante di scuola quale probabilmente non è mai stato, e vi trasfonde la pluriennale esperienza, che chiameremo proprio attoriale, di un divulgatore appassionato (radio, televisioni e giornali hanno reso Antonelli uno dei più popolari esperti dell’italiano di oggi). S’inventa le lezioni di un prof che, partendo da singole parole, o da frasi pronunciate apparentemente a caso, s’inerpica come un acrobata sulle loro etimologie, volteggia tra le lingue sorelle o cugine dell’italiano che gli scolari di oggi conoscono spesso per esperienza domestica, recupera il latino da un’angolatura – quella della sua parentela con l’italiano – dalla quale raramente lo si abborda. Gioca, insomma, con le parole come un mago o un prestigiatore fa con gli oggetti. E mostra praticamente come il versante considerato più inameno nei programmi scolastici – quello dello studio grammaticale, che nelle aule non semina meno inquietudine dei più austeri recessi dell’algebra – può trasfondersi in una pratica didatticamente efficace, giocosa, coinvolgente.
Bella forza, si dirà: mica possono farlo tutti. Vero. Ma un insegnante come il mago delle parole l’abbiamo avuto in molti, e non necessariamente insegnava italiano: per cui nelle pagine che lo raccontano possiamo tornare a innamorarci perdutamente di lui come ci successe, magari solo per un indimenticabile quadrimestre, ai tempi in cui sedevamo sui banchi di scuola