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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Il Nobel nel letto della Bovary

«Pensare all’opera di Flaubert è pensare a Flaubert, all’ansioso e laborioso lavoratore della molte ricerche e dagli abbozzi inestricabili. Don Chisciotte e Sancho sono più reali del soldato spagnolo che lì inventò, ma nessuna creatura di Flaubert è reale come Flaubert». Lo scrive Jorge Luis Borges e di primo acchito ti vien voglia di dargli ragione. Ma certo, ti dici, non senza compiacimento. Il personaggio più indimenticabile che Gustave Flaubert abbia saputo creare è Flaubert stesso: l’orso normanno che per sottrarsi alla volontà paterna e consacrarsi anima e corpo alla vocazione artistica mette in scena un esaurimento nervoso; lo sgobbone sociopatico che lavora dieci ore al giorno per il magro bottino di un paio di capoversi impeccabili; il nemico giurato di cacofonie, allitterazioni, pronomi relativi; l’infaticabile collezionista di materiali eruditi e luoghi comuni; l’alchimista che si è messo in testa di trasformare la prosa in poesia; l’estensore di lettere piene di notazioni geniali sull’arte di scrivere; lo scapolo senza arte né parte che odia gli stupidi e i filistei; il misantropo, il nichilista, il materialista che subordina la vita alla letteratura. «Io sono un uomo-penna. Sento attraverso di lei, per causa sua, in rapporto a lei, e molto più con lei», scrive a Louise Colet nel febbraio del 1852.
Flaubert è lo scrittore degli scrittori. Il santo patrono degli artisti inflessibili il cui contegno ha ispirato, benché in forme diverse e disuguali, Marcel Proust, Jean-Paul Sartre, Nathalie Sarraute, Vladimir Nabokov, J. D. Salinger, Julian Barnes, solo per citare i primi che mi vengono in mente. Ma la lista è parecchio più lunga.
E se Borges avesse torto?
Poi ti capita per le mani L’orgia perpetua, l’omaggio di Mario Vargas Llosa al genio flaubertiano, e capisci di aver preso un abbaglio. Comprendi quanto stupido sia dare credito ai brillanti paradossi di Borges, quanto irritante sappia essere il nostro erudito argentino, lui e i suoi snobismi soffusi di disincanto.
Flaubert è molto più di Flaubert lo scrittore. È l’inventore di caratteri in cui è impossibile non identificarci; l’architetto di mondi fittizi e plausibili; il pittore di scene squallide e sfarzose; il sarto specializzato in trame verbali pregiate come seta reale; il compositore dotato di orecchio assoluto.
Quando una trentina d’anni fa lessi per la prima volta L’orgia perpetua conoscevo un po’ Flaubert e quasi per niente Vargas Llosa. Ignoravo che questo saggio anomalo era stato scritto nel 1975: per il quarantenne autore peruviano, un periodo cruciale e straordinariamente fecondo. Aveva già messo in cascina i capolavori giovanili: La città e i cani e Conversazione nella cattedrale. Di lì a breve avrebbe inanellato una serie di romanzi per molti versi imprescindibili: La zia Julia e lo scribacchino, La festa del caprone e Avventure della ragazza cattiva. Non sapevo fino a che punto la musa di Vargas Llosa fosse stata influenzata dallo spettro di Flaubert.
Riletture
Se la lettura di allora fu per me una scoperta, la rilettura di oggi mi ha offerto qualcosa di più di una semplice riconferma. Pur non essendo uno specialista, ho avuto modo nel corso degli anni di leggere molte cose bellissime su Flaubert: i saggi di Albert Thibaudet e Victor Brombert, il famoso articolo di Proust, le lezioni di Nabokov, la monumentale biografia di Sartre, il romanzo picaresco di Julian Barnes. Ciò mi consente di dare ragione a quest’ultimo quando scrive che «L’orgia perpetua di Vargas Llosa è il miglior racconto di un romanzo che io conosca». Il romanzo in questione è la Bovary, naturalmente, ma il saggio di Vargas va ben oltre la semplice ricognizione intorno a quel caposaldo della letteratura universale.
L’occasione per rifletterci mi è stata offerta dalla nuova, impeccabile traduzione di Giuliana Calabrese da poco uscita per le Edizioni Settecolori.
«Avrebbe dovuto essere – scrive Vargas Llosa nel prologo – un testo di qualche pagina, ma una volta avviato il progetto, ho cominciato a riempire schede e quaderni e all’improvviso mi sono ritrovato vincolato in un lavoro che mi ha preso parecchi mesi di impegno e mi ha fatto vivere momenti di grande felicità». Si tratta di uno di quei saggi capaci di inverare il sospetto che mi affligge e mi stuzzica da che ho memoria: per efficaci che siano le divagazioni letterarie di un critico, non saranno mai all’altezza di quelle di un romanziere o di un poeta.
Per capire di cosa parlo, basta gettare un occhio alla parte del libro dedicata alle tecniche innovative inaugurate da Flaubert durante la faticosa compilazione della Bovary. Evitando come la peste ogni formulazione generica, sorvolando sulla prospettiva storica e su dissertazioni di ordine sociologico, le chiose di Vargas si concentrano sul nocciolo della questione. Il romanziere-critico muove da una constatazione tanto ovvia quanto ineludibile: «Con Flaubert si verifica un curioso paradosso: lo stesso scrittore che fa del mondo degli uomini mediocri e degli spiriti bassi il soggetto dei suoi romanzi si rende conto che, come nella poesia, anche nella finzione tutto dipende essenzialmente dalla forma, che la forma decide della bruttezza e della bellezza dei soggetti, della loro verità e della loro menzogna, e proclama che il romanziere dev’essere soprattutto un artista, un instancabile e incorruttibile lavoratore della forma».
L’esame cui sottopone la Bovary – per quanto debitore di eccellenti indagini critiche che l’hanno preceduto – è condotto con la perizia serena del giovane apprendista che smonta, pezzo a pezzo, il complesso congegno del maestro orologiaio. In tal modo Vargas si appropria della prospettiva dello scrittore, e quindi di chi deve affrontare una serie di problemi pratici, a cominciare dal più annoso: il punto di vista. Io non ricordo manuali di narratologia che illustrino con altrettanta precisione la ambasce del romanziere al lavoro.
Il narratore plurale
«Eravamo in classe, quando il preside entrò, seguito da un nuovo alunno in abiti borghesi e da un bidello che reggeva un banco. Chi dormiva, si svegliò, e tutti si alzarono in piedi, come sorpresi in piena attività». È il famoso incipit della Bovary nella mia frettolosa traduzione. Come molti altri prima di lui, Vargas Llosa si chiede chi sia il narratore di questa scena. Chi è l’«io» che parla a nome di tutti quanti? L’autore che venendo meno al principio d’impersonalità si concede un piccolo cameo preliminare? Un compagno di classe di Charles Bovary destinato a eclissarsi nel proseguo del romanzo? O una specie di cronista segreto che dovrebbe incarnare lo spirito della narrazione?
Dapprima Vargas nota che almeno in apparenza non si tratta di una novità: «Questo punto di vista – il narratore inserito all’interno del mondo narrato —, antico quanto il romanzo, sembra scelto per una prurigine di realismo, per sostenere la verosimiglianza di ciò che si racconta». Gli esempi non mancano, si pensi a certi romanzi picareschi del Diciottesimo secolo. Poi però sembra ripensarci offrendoci un’interpretazione suggestiva, e assai congeniale all’estetica flaubertiana. «Questo punto di vista spaziale, in cui non c’è alcuna distanza tra il narratore e quanto viene narrato, inaugura il romanzo stabilendo una grande vicinanza tra il lettore e il racconto; per l’intero quadro – l’arrivo di Charles in classe, gli scherni, l’episodio della casquette, la punizione inflitta dall’insegnante – in cui il narratore personaggio plurale è la prospettiva dominante, sembra che stiamo per leggere una confidenza, un’autobiografia». Un equivoco subdolamente alimentato dall’autore che consente a Vargas Llosa di interrogarsi sulla presunta genuinità del realismo di Madame Bovary.
L’impersonalità su cui Flaubert insiste tanto nelle sue lettere non è un orizzonte sostenibile per chi prende una penna in mano e si mette a raccontare una storia. Non c’è modo per lui di celare fino in fondo la propria personalità, le sue idee sulla vita e sugli altri. Il realismo è una tensione verso un assoluto irraggiungibile. Altro che tecnica narrativa, altro che scrupolo etico, è una postura artistica, e quindi una forma di impostura. «L’impassibilità e l’oggettività sono solo modi astuti e surrettizi di riservare tale soggettività in quanto viene narrato, una strategia in cui conclusioni, dimostrazioni e reazioni sentimentali a ciò che accade nella realtà fittizia sembrano trasparire naturalmente dalla storia al lettore e non essergli imposte da un narratore dittatoriale. Invece di dare la sua opinione direttamente, l’autore lo fa in modo invisibile, sinuoso: organizzando la materia in un certo modo, collegando gli episodi in un altro, illuminando e oscurando il comportamento dei personaggi nei momenti opportuni, scegliendo eventi rivelatori, provocando certi dialoghi, facendo certe descrizioni».
Elogio di Emma Bovary
Chi ha un po’ di dimestichezza con l’opera di Vargas Llosa sa che la sua narrativa sprigiona un pathos e una freschezza per molti versi antitetiche al mortifero nichilismo flaubertiano. Ma le infatuazioni letterarie hanno questo di bello. Uno scrittore può amare immensamente un suo collega scomparso da più di un secolo senza per questo dovergli somigliare. Tanto per dire, non sono certo che Flaubert sottoscriverebbe l’elogio di Emma Bovary cui Vargas si lascia andare.
Assodato che il famoso «Madame Bovary c’est moi» non fu Flaubert a pronunciarlo, resta ancora da stabilire che tipo di sentimenti nutrisse per la sua eroina. L’utilizzo spregiudicato dell’indiretto libero gli consente di non sbilanciarsi troppo. Un’ambiguità che se da un lato spinge il lettore ingenuo a sovrapporre i pensieri di Emma a quelli del suo creatore, dall’altro induce al lettore avvertito a preferire i passi in cui Flaubert si fa beffe di Emma: quando lei parla di libri, delira su matrimoni notturni e fantastica su figli maschi e viaggi esotici.
È chiaro che Vargas Llosa non appartiene né alla prima categoria di lettori, né alla seconda. Niente gli è più estraneo dal giudizio liquidatorio su Emma espresso da Nabokov nel seguente modo: «Le fantasie esotiche non le impediscono di essere in fondo una piccoloborghese, aggrappata a idee convenzionali del convenzionale, e l’adulterio è un modo estremamente convenzionale di sollevarsi dal convenzionale». Vargas Llosa prende la tragedia di Emma assai più seriamente, se ne fa carico con tenerezza e empatia. «La storia di Emma è una cieca, tenace, disperata ribellione contro la violenza sociale che soffoca tale diritto». Anche per questo, forse, lui si guarda bene dal giudicarla. Pur ammettendo che è «una ragazza sdolcinata e piuttosto grossolana», pur consapevole che non sia propriamente una cima, ne apprezza il carattere forte, lo scorza coriacea e soprattutto l’anticonformismo profano. Sognatrice, è vero, ma anche spregiudicata artefice della sua sorte. Non c’è nulla che lei pensi, dica o faccia che non insulti il senso del decoro dei provinciali che la assediano. Ciò che la distingue da qualsiasi altra eroina romantica è la consapevolezza che privarsi dei pochi piaceri della vita – l’amore, il sesso, il lusso – è un delitto. «Il sesso è alla base di ciò che accade e, insieme al denaro, è la chiave dei conflitti, e la vita sessuale ed economica sono tanto intrecciate in una trama così intensa che l’una non può essere compresa senza l’altra».
Lo sfrenato edonismo di Emma è la sua forza e il suo limite. «La sua felicità sessuale spiega in gran parte la sua cecità, il suo conformismo, la sua ostinata mediocrità». Ciò che per molti è una colpa, forse per lo stesso Flaubert, per Vargas Llosa è un merito. «Io mi compiaccio – scrive – che Emma, anziché soffocare i suoi sensi, abbia cercato di soddisfarli, che non si sia fatta scrupoli nel confondere cul e cœur, che a conti fatti sono parenti stretti, e che sia riuscita a credere che la luna esistesse per illuminare la sua alcova».