La Lettura, 23 febbraio 2025
Siamo plasmati dalle promesse (mantenute e no)
Le protagoniste de La promessa, primo romanzo di Rachel Eliza Griffiths (Mondadori), sono due sorelle, Cinthy e Ezra Kindred, che vivono nel Maine. L’inizio, nell’estate del 1957, sembra idilliaco, ma pian piano le fratture tra questa famiglia afroamericana e i vicini di casa bianchi si allargano.
Perché ha scelto di ambientare il romanzo nel nord degli Stati Uniti?
«C’è un corpus significativo e potente di letteratura americana che si concentra sul Sud per parlare di temi razziali. Volevo sfidare la nozione che nel nord si fosse liberi dal razzismo negli anni Cinquanta, cosa semplicemente non vera. È ambientato in un posto freddo e selvaggio, basato sul nord del Maine ma anche frutto della mia immaginazione. Queste ragazze crescono, affrontano scelte sul matrimonio, l’istruzione, l’identità, il futuro. L’innocenza estiva contrasta con i cambiamenti che verranno. Si rendono conto del nuovo sguardo razziale, politico, classista, sessuale che si posa su di loro e, allo stesso tempo, sono ancora bambine».
Lei ha lavorato a questo libro per almeno sette anni: in che modo è influenzato dagli eventi di quest’ultimo decennio, incluso l’omicidio di George Floyd?
«Ho iniziato questo libro pensando al mondo in cui erano cresciuti i miei genitori, in particolare mia madre, nata nel 1954. È ambientato negli anni 1957-1958, quando una donna nera come mia madre aveva opzioni molto limitate: poteva fare lavori domestici, le pulizie nelle case dei bianchi, se istruita forse insegnare, forse lavorare nell’intrattenimento o come cuoca. Spazi che discendono dal retaggio della schiavitù. Ho pensato alle promesse che mi facevano i miei genitori, a quelle che hanno mantenuto e a quelle che hanno infranto, alle promesse infrante nei loro confronti in quanto cittadini americani. Da bambina ero affascinata da questa parola: promessa. Mio padre era un avvocato, i miei genitori erano molto attivi per la giustizia sociale, aiutavano le persone a registrarsi per votare, a informarsi su quello che succedeva in America. Questo libro è nato durante il Covid, è rimasto dentro di me per sette o dieci anni prima che potessi capire a fondo i personaggi e l’energia psicologica di ciascuno di essi. Non sono riuscita davvero a scriverlo fino alla morte di mia madre. Dopo l’omicidio di Trayvon Martin, protestavo in strada, visitavo le scuole, scrivevo lettere e poesie: su Trayvon, Eric Garner, Brianna Taylor, tutti questi nomi, fino a Emmett Till, ucciso nel 1955. Ma quando George Floyd è stato ucciso, si è spezzato qualcosa nel mio cuore, non sono più riuscita scrivere poesie che celebravano persone nere morte».
Come si sente all’idea che «La promessa» venga pubblicato sotto la nuova amministrazione di Donald Trump?
«È stato considerato all’inizio un romanzo storico. Ma potrebbe essere ambientato nel 2025. Oggi i diritti delle donne sono sotto attacco. Diversità, equità e inclusione sono sotto attacco. È qualcosa che non avevo mai sperimentato nella mia vita. Sono stata disinvitata da diverse istituzioni educative alle quali è stato detto che non possono lavorare sul mio libro. Ero stata invitata in un college dove gli studenti lo avrebbero letto, ma ho ricevuto una lettera che diceva che, per via delle nuove norme, non ci sarà una celebrazione della diversità e delle culture afroamericana, nativa e indigena, latina e ispanica, asiatica americana. Non ci saranno eventi culturali di questo genere nel 2025. Così un evento programmato un anno e mezzo fa è stato cancellato all’improvviso. Mi dicono che purtroppo le istituzioni accademiche non vogliono perdere i fondi ed essere punite, perciò devono obbedire, specialmente se non hanno la forza delle università Ivy League o delle grosse scuole. Perciò, adesso, personalmente e politicamente, in quanto cittadina di questo Paese capisco che cosa significhi essere banditi o esiliati dal luogo che dovrebbe essere la mia casa. Capisco i miei personaggi, che credevano di trovarsi in una casa protetta che viene squarciata dal passato. Molte istituzioni accademiche sono terrorizzate in questo momento. Ma ciò significa anche che ci sono studenti che iniziano gli studi universitari in America e per quattro anni non verranno esposti ad altre culture e lingue perché la storia viene distorta, mutilata, cancellata. E lo vediamo in tempo reale, ogni giorno, come su un campo di battaglia. Devi trovare la tua strategia per restare umano, conservare la dignità e continuare il tuo lavoro. Ma ciò che sta succedendo può uccidere il tuo spirito».
Quali promesse hanno mantenuto i suoi genitori? Quali hanno infranto?
«Hanno mantenuto la promessa di amarmi. Ma nella vita c’è un momento sconvolgente, da bambino o da adolescente, in cui ti rendi conto che i tuoi genitori non possono davvero proteggerti, e questo cambia il tuo modo di vederli. L’amore non cambia, ma se qualcuno può entrare in un negozio mentre sei con tua madre e dire che ha rubato qualcosa, aprire la sua borsa, svuotarla, trattarla come un animale di fronte a te, è qualcosa che non puoi dimenticare. E allora sai che non possono prometterti che non succederà anche a te, perché succede a loro e sono impotenti. C’è un momento in La promessa in cui le due sorelle vengono separate e la più grande chiede alla minore di prometterle che oserà sempre nella vita, che sarà audace, senza paura: credo che questa sia una promessa che i miei genitori avevano paura di affrontare. Volevano che fossi al sicuro e invece sono diventata una scrittrice e un’artista. Quando sei una ragazzina nera e sei diversa, perché sai di essere un’artista, ti senti in qualche modo esiliata, anche se sei in una bella casa dove ci si prende cura di te. C’è una parte di te che fa fatica a respirare, a volte, perché non sai di chi puoi fidarti. Penso anche alle promesse che io non ho mantenuto, per ragioni fuori dal mio controllo o perché mi rendevo conto delle implicazioni. Continuo a pensare alla parola promessa e al suo significato: tra due persone, in famiglia, in una città, nella letteratura...».
Nei giorni scorsi, suo marito Salman Rushdie ha affrontato in tribunale l’uomo che cercò di ucciderlo nel 2022. Lei ha documentato con foto e video le ferite di suo marito, come racconta lui stesso nel libro «Coltello». Perché?
«Fu un’idea di Salman: mi chiese di usare il mio iPhone per scattargli un ritratto ogni giorno, ma poiché sono un’artista gli ho detto che volevo usare una vera macchina fotografica. In quel momento estremamente traumatico è diventato un modo per sentire che avevamo ancora una voce, per allargare la nostra comprensione dell’amore e della memoria e non dimenticare nulla, per capire quello che sarebbe venuto dopo e che saremmo sopravvissuti. Quando Salman è tornato a casa e stava meglio ed è stato pronto a guardare le immagini per la prima volta, quello che gli ho mostrato sullo schermo non era la persona che vedeva allo specchio e questo gli ha dato lo spazio per creare la sua narrazione... La maggior parte delle persone sarebbero morte su quel palcoscenico. È una specie di vita dopo la morte, l’opportunità di esser qualcosa di più come scrittori, nel nostro rapporto e per gli altri.... Io non riesco davvero a guardare quelle immagini. Dovevo lasciare la stanza quando abbiamo iniziato. Ma sono felice che esistano perché ci sarà un momento in cui sarà sempre più arduo per me ricordare quel periodo, e significherà che sto guarendo, ma resterà una traccia, questo film, che è nelle mani di un eccellente regista, Alex Gibney. Io scrivo romanzi, poesie, sono una fotografa e una pittrice, sperimento per essere onesta e intima nell’esprimere quello che significa essere umano in questo secolo. E anche quando sembra impossibile, non distoglierò lo sguardo. Sarò testimone. Non so chi sarò alla fine di questo processo. Dopo l’attacco sto ancora imparando a capire chi sto diventando, perché non sarò mai più chi ero una volta e questo è un grande dolore. Non sarò più lei».