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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Il nero batte il bianco ma il razzismo vince.

Vedere le azioni è un modo per comprendere la vita. È più facile da quando la tecnologia ci ha permesso di osservare (e conservare) la memoria degli eventi. Si possono cogliere le sfumature, le espressioni del volto, le emozioni e persino le intenzioni represse. La documentazione cinematografica assolve perfettamente questa funzione ed è significativo che il primo lungometraggio della storia del cinema sia un incontro di pugilato, il Corbett-Fitzsimmons Fight del 1897, che precede ogni altra narrazione filmica di finzione. La boxe si presta bene allo scopo: fa spettacolo e ha uno sviluppo autoconclusivo in un tempo limitato. Deve avere pensato a questo precedente Christophe Granger, docente all’università Paris-Saclay, quando ha deciso di analizzare un altro incontro di boxe: quello tra due mediomassimi, Georges Carpentier e Battling Siki, che si tenne a Parigi il 24 settembre 1922. Ne ha fatto un libro, Quindici minuti sul ring. Anatomia di una lotta (Einaudi). In quanto storico e sociologo, Granger misura in modo non convenzionale l’azione nel suo svolgersi, fino alla conclusione inaspettata. Perché il favorito, il pugile bianco che detiene il titolo, è messo al tappeto dallo swing sinistro del pugile nero, sovvertendo le aspettative. In quindici minuti: un tempo fissato nell’immagine della copertina, dove Carpentier rotola a terra, tenendosi la gamba, mentre Siki lo sovrasta, quasi trattenendosi dal colpirlo ancora.
Professor Granger, «Quindici minuti sul ring» è un libro sconcertante: il lettore si aspetta che sia sulla boxe e invece è molte altre cose. La boxe è solo un pretesto per fare un’analisi sociologica originale. Qual è la finalità di questa «anatomia di una lotta»?
«Mi piace il termine “sconcertante”. È ciò che ho cercato di fare. Sconcertare il lettore riguardo all’oggetto del libro, ma anche sconvolgere l’abitudine ad analisi troppo rodate. Ho scelto un combattimento di boxe per entrare nei dettagli di un’azione passata. M’interessava la dimensione che resta fuori dalla riflessione: descriviamo ciò che le persone fanno o hanno fatto, raramente ci soffermiamo sul modo. Era un’occasione per portare la storia nel campo dell’etnografia e della sociologia. Non una nuova teoria dell’azione, ma l’osservazione e la descrizione accurata di una sola azione. Il combattimento tra Siki e Carpentier era stato filmato dall’inizio alla fine e permetteva di entrare nel dettaglio dell’azione proprio mentre si svolge e farne uno studio quasi clinico, una “microstoria”».
Quanto ha inciso nella sua scelta il fatto che i due pugili fossero uno nero (Siki) e uno bianco (Carpentier)?
«È un elemento centrale. Ma bisogna collocarlo nel giusto contesto. Il filmato è stato recuperato nel 2010 e, secondo una lettura antirazzista quasi caricaturale, è divenuto l’emblema del razzismo di un tempo. Il finale dell’incontro si prestava. Quando al sesto round Siki mette ko Carpentier, l’arbitro lo squalifica con il pretesto di un fallo di gamba (anche se poi i giudici riconosceranno la vittoria a Siki). Si voleva vedervi un segno di razzismo: impossibile che un pugile nero vincesse uno bianco. Ma non è così che andavano le cose, ed entrare nel dettaglio dell’incontro permette di farcene un’idea più corretta. La dimensione razziale della boxe aveva allora un ruolo particolare. Non solo perché prima della guerra c’erano molti pugili afroamericani in Francia, da cui è dipesa la definizione di pugilato, ma anche perché la presenza di un pugile nero accresceva l’interesse. Da Siki ci si aspettava un gioco rudimentale, brutale, selvaggio, con pochi colpi possenti, in grado di ribaltare il risultato. Questo modo di boxare, in cui erano confinati i pugili neri, era l’opposto del pugilato dei bianchi, basato sulla purezza dell’esecuzione e la ricerca di nuove sequenze. Questa opposizione rendeva i combattimenti più apprezzati. Nello scontro tra un pugile nero e uno bianco, il pubblico ricercava il brivido di assistere a una lotta di civiltà».
C’è comunque una componente razzista nell’aspettarsi da un pugile nero un gioco brutale e selvaggio e nel parlare di una lotta di civiltà...
«Sì, certo, è razzismo. A quel tempo era radicato, legato alla teoria razziale di Paul Broca e soprattutto alla politica colonialista della Francia. Ma se ci limitiamo a dire che allora le persone erano razziste, diamo un giudizio di valore sul passato (cosa che, in Francia, ci permette di distinguerci da ieri, sostenendo che oggi saremmo meno razzisti). Ho approfondito la questione diversamente: non tanto se vi fosse stato razzismo nel 1922 (senza dubbio c’era), ma come funzionava in pratica, chiedendoci dove passava il razzismo in questo combattimento. È così possibile riconoscere come si fabbricano le “proprietà razziali” del pugile nero. Sono il risultato di una costruzione sociale della differenza, di cui Siki è testimone. Non basta dire “dai pugili neri ci si aspettava un pugilato primitivo”, va compreso come sono stati messi in condizione di acquisire quel comportamento. Sì, c’era del razzismo in quell’incontro, ma bisognava descrivere esattamente come si manifestava. I giudizi di valore retrospettivi non servono a nulla».
Che cosa significa «comprendere un’azione»?
«Significa sapere tutto ciò che contiene. Era la sfida di questo libro! Era necessario dare al lettore, alla fine del libro, la possibilità di rivedere l’azione dall’inizio. Per questo il libro doveva contenere anche il film».
Il volume si chiude con una sequenza di fotogrammi: parole e immagini. Non le sembra che manchi proprio il «movimento» per poter sostenere un’analisi dell’azione?
«Mi piacerebbe sostenere che tagliare il filmato in migliaia di fotogrammi in successione riesca a riprodurre l’esperienza visiva del film. Ma non è così semplice. Ciò che si ottiene è simile ai fumetti muti degli anni Venti, come quelli di Lynn Ward, che piacevano a Thomas Mann. Si rimane ancorati al dispositivo della lettura e non della visione. Un film non si legge, un libro non si guarda. Come si fa a inserire un film in un libro? Si può rinviare il lettore alla visione diretta. Io avevo voglia di esplorare ciò che i libri possono fare attraverso la forma, la carta, il layout, e che non sono soliti darci. A volte si fanno libri anche solo per il piacere di giocare con i libri».