La Lettura, 23 febbraio 2025
Io ce l’ho fatta (e sono l’eccezione).
«Ho vissuto un’avventura straordinaria, io», dice Mokhtar Amoudi, 37 anni, nella saletta superiore del caffè Editeurs in place de l’Odéon a Parigi, uno dei luoghi d’incontro abituali del mondo editoriale di Saint-Germain-dès-Prés. In una città ossessionata dai «codici» (soprattutto quando mancano), ovvero quell’insieme di letture, gusti culturali, modi di fare che di solito distinguono chi è nato nei beaux quartiers della rive gauche dai provinciali o, peggio, dai banlieusard, Amoudi si muove perfettamente a suo agio. Ha conquistato il cuore di Parigi ma è nato e cresciuto – in condizioni disastrate – a Nord del périphérique, la tangenziale: barriera fisica e psicologica che separa la periferia dalla capitale vera.
Nel molto premiato romanzo ironicamente intitolato Le condizioni ideali, Amoudi racconta attraverso il protagonista Skander la sua vita di bambino abbandonato all’età di un anno e ricollocato più volte in varie famiglie di affido, mosse qualche volta dalle migliori intenzioni, qualche volta – come nel caso di Madame Khadija – dal bisogno di intascare l’assegno dell’assistenza sociale. Amoudi è cresciuto a La Courneuve nel dipartimento della Seine Saint Denis, il famigerato «93» raccontato da registi e rapper. La Courneuve nel libro diventa Courseine perché si tratta non di un saggio ma di un romanzo. Davanti a un caffè e a una Perrier, Mokhtar Amoudi racconta a «la Lettura» come è passato dai pestaggi del quartiere a Gallimard.
Quando ha deciso di scrivere un libro sulla sua vita?
«Avevo 21, 22 anni quando mi sono sentito davvero disperato e totalmente solo. Fino alla maggiore età ho vissuto grazie all’aiuto dello Stato, un servizio che ha molti difetti ma esiste e permette di sopravvivere. Poi, a 18 anni, perdi quella rete di salvataggio, vieni buttato nel mare e devi nuotare. A un certo punto, mentre studiavo Diritto, ho sentito che stavo precipitando. Perso per perso, come si dice, mi sono detto che valeva la pena scrivere quel che avevo vissuto».
E ha trovato sostegno?
«Non avevo gli editor di una casa editrice, ma qualche amico al quale fare leggere quel che via via scrivevo. E intanto, ai vecchi compagni della periferia, dicevo: “Vedrete, ce la farò”».
«Ce la farò» a diventare scrittore?
«Sì, quello era l’obiettivo. I miei amici da ragazzo rapinavano le banche: quello era il mio mondo. Io sono entrato per effrazione in un altro, quello della letteratura. Ma sono un errore statistico».
E com’è stato possibile? Perché i suoi compagni si dedicavano alle rapine e lei alla lettura e alla scrittura?
«Per tante ragioni. Intanto, anche da bambino, sono sempre stato ossessionato dall’imparare. In modo disordinato, certo, ma volevo imparare tutto il possibile. Leggevo sempre il dizionario, mi appassionava. Poi sono rimasto affascinato dai classici personaggi dell’ascesa sociale e culturale, Martin Eden di Jack London, il Lucien de Rubempré della Commedia umana di Balzac… E poi ho avuto un colpo di fortuna irripetibile».
Quale colpo di fortuna?
«Ci ho messo tantissimo a scrivere il libro. Correggevo di continuo, volevo che fosse all’altezza. Lavoravo come un pazzo con il computer, due schermi e la stampante. Dopo anni di lavoro alla fine ho sentito che l’avevo terminato. E un giorno, il 22 gennaio 2022, ho preso un caffè in una brasserie della Madeleine per raccontarlo a un amico. Come succede a Parigi, i tavolini sono appiccicati, accanto a noi c’era una signora. Dopo due ore, si alza e mi offre il biglietto da visita, dicendo: “Mandi il manoscritto a Gallimard”. Ho capito che aveva ascoltato tutto».
E lei cosa ha fatto?
«Ho seguito il consiglio. Qualche giorno dopo la signora mi ha chiamato, con voce molto dolce, gentile, dicendo che il testo era stato letto da due persone e apprezzato. Ora lo avrebbe letto lei. Ho scoperto che era la numero 2 di Gallimard, la più importante casa editrice francese e una delle più importanti del mondo».
E come è andata a finire?
«Mi hanno convocato nella sede di Gallimard. Tre settimane dopo ho firmato il contratto. Lavoravo alla Cassa depositi e prestiti, in rue de Lille, a 100 metri da lì. Forse era destino. Quando sono uscito da quel famoso, pesante portone, ho tirato un sospiro così forte che le ragazze sulle scale si sono messe a ridere».
Il romanzo è uscito in Francia nella «rentrée» di settembre 2023, è stato scelto nella lista del Goncourt, poi ha vinto il prix Goncourt dei detenuti e il Mottart de l’Académie française.
«Il successo che ho sognato. Già il fatto di essere pubblicato nella Blanche, la collana più prestigiosa… Ma poi i premi, l’Académie française… Mi hanno detto che Skander ricordava Momò della Vita davanti a sé di Romain Gary. E poi ho vinto un premio nel Principato di Monaco, sono stato due ore a tavola con il mio nuovo amico, il principe Alberto (ride, ndr), ho potuto viaggiare. Sono stato per la prima volta in Algeria, il Paese di origine di mia madre. E sono amministratore della Società dei Lettori di “Le Monde”».
Che cosa le hanno detto i suoi amici della banlieue?
«Il primo che ho chiamato è stato il mio insegnante, un po’ il mio padre spirituale, che mi incoraggiava a leggere ma non a scrivere: aveva paura che rincorrendo quel sogno non sarei mai uscito dalla precarietà. Non mi ha mai preso sul serio. Un po’ come un padre che non è fiero di te. Invece l’ho chiamato per dirgli: “Ce l’ho fatta”. Ma non tutto è filato liscio. La ragazza che amavo, e che amo ancora, mi ha lasciato. Forse per gelosia, non so».
Dal romanzo emerge, ed è molto toccante, che lei da bambino ha continuato a vedere sua madre.
«Non riusciva a occuparsi di me ma era viva, c’era. Poverissima, di una povertà e infelicità che le persone normali non possono immaginare. Doveva prendere medicine, diciamo che era una specie di senza fissa dimora, alla quale però per fortuna lo Stato dava una casa. Ogni tanto l’andavo a trovare, in un posto pieno di scarafaggi, tantissimi scarafaggi. A 5 anni ho avuto coscienza che ero solo, totalmente. Ma mi faceva piacere stare un po’ con lei, mi potevo riposare. Di solito stavo attento a ogni parola, ogni sguardo, tra i genitori affidatari, le assistenti sociali… era molto faticoso. Quando stavo da mia madre per qualche ora tiravo il fiato».
Nel romanzo lei racconta poi l’adolescenza e la banlieue.
«La banlieue che ho vissuto io. Che non è quella, che pure esiste, della solidarietà, della ricchezza multiculturale. Io ho vissuto l’altra parte, quella della violenza. Una violenza banale, quotidiana, fatta di rapine e furti ma anche delle botte dei più grandi ai più piccoli, i forti che hanno muscoli, fanno molta palestra e devono farlo vedere. Tutto molto fisico, e vi posso assicurare che i pugni fanno male. Un allenamento che mi ha fatto sviluppare certe capacità utili anche ora».
Quali?
«Guardo una persona negli occhi e capisco subito che cosa aspettarmi. È qualcosa che sviluppi quando vivi in un ambiente estremamente violento, quando intorno hai ragazzini di 14 anni abitati dal male, che possono picchiarti davanti a tutti e umiliarti in ogni momento. Ognuno si costruisce a partire dai racconti… Qui a Parigi le persone si raccontano le vacanze, i viaggi nei Paesi esotici… Da noi ci raccontavamo le rapine».
Sta scrivendo un altro libro?
«Certo, bisogna sempre andare avanti. E stavolta racconterà un’altra violenza, quella di certi borghesi parigini».