Tuttolibri, 23 febbraio 2025
Manza Mengiste e il sangue da cui liberarsi
Maaza Mengiste è una delle scrittrici più raffinate e interessanti del panorama globale. La sua vita, intreccio di mondi, tra Addis Abeba e New York, ci ha regalato libri, saggi, riflessioni imprescindibili per capire il nostro presente. Dopo il fortunato, e intenso, Il re ombra (Einaudi), un romanzo che prende di petto la questione coloniale, e quegli anni, gli anni ’30, in cui l’Italia fascista ha occupato la libera Etiopia, ora torna, sempre per Einaudi, il suo primo romanzo, Sotto lo sguardo del leone, in una nuova e folgorante traduzione di Anna Nadotti, che seguendo il filo della lingua chirurgica di Mengiste, ci ha donato in italiano tutta la forza della prosa della scrittrice. Il romanzo, pur parlando dell’Etiopia degli anni ’70, ricorda molto i nostri giorni, dove il mondo si sta tristemente popolando di autarchie liberticide. Hailu, il medico protagonista del romanzo, e i suoi figli, Yonas e Dawit, che vivono negli anni della dittatura del Derg di Mènghistu Hailé Mariàm, detto il Negus Rosso, sembrano davvero personaggi usciti dalle cronache dei nostri giorni. Abbiamo raggiunto la scrittrice per porle alcune questioni sul romanzo.Per cominciare le chiederei il significato del titolo. Cosa guardano i leoni?«Il leone è un importante simbolo di forza e coraggio in Etiopia, come in molti altri luoghi. In Etiopia è anche strettamente correlato all’immagine dell’imperatore Haile Selassie. Si faceva chiamare il Leone di Giuda e aveva dei leoni domestici a palazzo. Quando penso ai leoni, però, penso a una statua appena fuori dai cancelli dell’Università di Addis Abeba dove, in cima, ci sono due leoni che fissano gli studenti e il traffico. Immagino quei leoni che guardano dall’alto la rivoluzione in corso in città. Immagino che l’imperatore guardi il suo paese e veda la distruzione causata dall’avidità e dal potere assoluto».I protagonisti del romanzo da Hailu il dottore, ai suoi figli Yonas e Dawit, fino all’amico Mickey sono immersi nella violenza che ha seguito la fine di un impero millenario e l’inizio del Derg, uno dei periodi più sanguinosi vissuti dall’Etiopia. Com’è riuscita a lavorare su tutto questo sangue senza lasciarsi travolgere? Mantenendo uno stile in equilibrio tra ricerche d’archivio ed empatia?«Questo lavoro mi ha travolto. A volte era veramente molto difficile sedersi per lunghi periodi di tempo per scriverlo. Ho dovuto fare delle pause. Avevo bisogno di scrivere dove c’era rumore per distrarmi. Quando ho finito una bozza, poi due, e ho iniziato a fare l’editing del libro, è diventato più facile. Sono passata al ruolo di redattore e ho rivolto così un occhio clinico a tutto quello spargimento di sangue. Alcune scene, in particolare quelle con il piccolo Berhane, mi hanno comunque devastato. Per me sono ancora molto difficili da leggere. Ho scoperto che il mio obiettivo come scrittrice non è trasmettere un fatto ma farlo sentire al lettore. Ciò significa che la storia e la narrazione saranno sempre più importanti della ricerca d’archivio. Lo dico come una scrittrice che ama fare ricerche e può perdersi nelle meravigliose scoperte di nuovi fatti! È la storia che conta e ciò che ricerco deve essere al servizio della storia».Il suo romanzo anche se parla di anni ’70, di Etiopia, fa molto pensare all’America di oggi ostaggio delle tecnocrazie. E fa pensare anche a tutto quello che è successo alla Columbia University e alla repressione vissuta dagli studenti che manifestavano per un cessate al fuoco a Gaza. Da scrittrice, dal doppio sguardo, come vede gli Stati Uniti oggi?«Di recente ho detto a qualcuno che questi giorni gli Stati Uniti assomigliano molto, sono davvero molto simili, a quelli dei primi giorni della rivoluzione: la repressione, la paura, l’improvvisa rimozione delle protezioni e delle libertà di espressione e movimento. Lo stiamo vedendo negli Stati Uniti e, come in Etiopia e in altre rivoluzioni e colpi di stato, i regimi attaccano per primi gli studenti. Ciò che il mondo ha permesso che accadesse a Gaza senza una vera protesta, quella crudeltà implacabile e incrollabile contro le persone, si sta facendo sentire negli Stati Uniti, in Congo, in Sudan...».Nel romanzo emblematica è la storia della madre di Sara che negli anni ’30 del secolo scorso ha ucciso un ufficiale italiano. Lei incarna già in fondo quelle donne resistenti protagoniste del suo acclamato secondo romanzo “Il re ombra”. Ma anche in questo romanzo sulla dittatura le donne resistono, soffrono, amano, pregano. Come ha tratteggiato le sue personagge femminili?«Volevo che le mie personagge femminili fossero umane, imperfette, coraggiose, impaurite, egoiste e generose come qualsiasi personaggio maschile complesso. Non volevo renderle eroiche, volevo renderle reali».A proposito di colonialismo. Secondo lei viviamo in tempi coloniali o postcoloniali?«Possiamo guardare a Gaza e alla Cisgiordania e dire che siamo postcoloniali?».Un personaggio che nel libro tiene con il fiato sospeso il lettore è Mickey. È bullizzato, deriso e poi una volta adulto diventa braccio armato della rivoluzione rossa di Mènghistu. Mickey compie stragi, diventa esecutore di omicidi efferati. Ma non smette, perché è di indole buona, di cercare in fondo misericordia. Come ha costruito un personaggio così?«Grazie per questa generosa lettura di Mickey. Alcuni lettori faticano a vedere i suoi tentativi di mantenere ancora un certo livello di dignità. Mickey ha un limite che non vuole oltrepassare, è stato costretto a fare cose violente ma c’è una cosa che rifiuta. Volevo mantenerlo umano, mantenere in lui un livello di umanità anche se veniva distrutto dall’interno dal regime».Anna Nadotti, la sua traduttrice, è riuscita a ricreare la musicalità e il ritmo del suo inglese che profuma di Meskel, dove Addis Abeba, la sua tradizione letteraria e orale, incontra New York. Ha seguito il processo di traduzione? E com’è per lei vedere i suoi libri tradotti in una lingua un tempo nemica dei suoi antenati?«La lingua non è un nemico. Credo che le persone possano prendere la lingua che una volta apparteneva al nemico e farla propria. La lingua è connessa all’immaginazione, racchiude concetti, ha la capacità di cambiare forma e rinnovarsi attraverso il contatto con altre lingue e culture. Il mio libro si rinnova attraverso il contatto con l’italiano, lingua che anch’io amo. Lavorare con Anna è stata una gioia. Ha condiviso con me le sue traduzioni, abbiamo parlato del significato di alcune parole, mi sono sentita parte del processo e mi sono sentita privilegiata nel farlo».Che ruolo ha l’amore in questo romanzo?«Inizia una rivoluzione in nome dell’amore. Inizia quando le persone si sollevano in difesa di persone che non hanno mai incontrato. Una rivoluzione verrà spesso cooptata da altre potenze, ma credo davvero che il primo linguaggio della rivoluzione sia l’amore. Penso che la furia che alimenta quella rivoluzione all’inizio sia la speranza». —