Tuttolibri, 23 febbraio 2025
Riflessioni sul processo tra metafisica e vita
Il processo visto da uno scrittore è una cosa, o una serie di cose. Visto da un giurista, è un’altra cosa. Certo, quando devono affrontare un argomento con aspetti molto tecnici e quando la ragione di fascino di quella materia sta proprio nei suoi dettagli, gli scrittori si documentano. E molti degli scrittori specializzati in legal thriller, o che hanno scritto anche legal thriller o romanzi riconducibili a quel sottogenere, dall’avvocato John Grisham negli Stati Uniti ai magistrati Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo da noi, sono autori con una formazione giuridica profonda, professionale, più che semplici appassionati della materia o, addirittura, estranei al tema che s’informano per l’occasione.Del resto, pochi argomenti si prestano a una narrazione come il processo, eppure, più che dalla scrittura, il processo è stato esplorato, indagato, saccheggiato dal cinema. Il clamore che accompagnò l’uscita della traduzione italiana di Presunto innocente di Scott Turow, nel 1987, testimoniava come da noi si sentisse la mancanza di un bel procedural con una forte intelaiatura giuridica. Certo, si osservava subito che il sistema giuridico americano è assai diverso e molto più spettacolare, anche se il nostro lettore deve fare un piccolo sforzo aggiuntivo per decodificare le cariche, i ruoli, le procedure, ma il processo penale italiano poco si presta, si diceva, per la sua stessa conformazione, a un racconto appassionante, finché arrivò, nel 2002, il successo di Testimone inconsapevole dell’allora esordiente Carofiglio a smentire questo ennesimo luogo comune.Un conto è l’uso narrativo che si può fare di tutti gli elementi che costituiscono un processo: l’escussione dei testimoni, le strategie della difesa e della pubblica accusa, il ruolo della giuria, l’esame delle prove, il fuoco retorico delle arringhe, la catarsi di una giustizia ristabilita con l’ultimo colpo di scena, l’intuizione geniale che sgomina in extremis l’imminente condanna; un altro è l’aspetto più alto e solenne del processo, quello inevitabilmente metafisico, quello che rimanda al giudizio universale, alla condanna dell’esistenza, alla pena inspiegabile del vivere, al Processo di Kafka, insomma. Ma questa stranota polarità è una troppo facile opposizione. Per superarla occorrerà prendere in mano uno di quelli che una volta si chiamavano “aurei libretti”. E allora apriamo la piccola opera di un grande scrittore che nasce grande giurista, e leggiamo Il mistero del processo di Salvatore Satta. Avanziamo tra le pagine smilze di questo testo pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi e, come succede quando riflessione teorica e letteratura si incontrano, sentiremo mancarci il terreno sotto i piedi.Satta apre ricordando un episodio semisconosciuto della rivoluzione francese: il 2 settembre 1792 l’appena costituito tribunale rivoluzionario sta giudicando il maggiore Bachmann della guardia svizzera del re, quando una folla inferocita di sanculotti che ha appena massacrato alcuni disgraziati prigionieri nelle carceri, irrompe nella sala del tribunale per aggiungere ai corpi già straziati dalla loro furia anche quello del maggiore, quando il presidente Lavau ferma gli invasori intimando loro di «rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada». I sanculotti, ancora sporchi del sangue appena versato, arretrano perché: «hanno compreso che quanto essi hanno cominciato coi loro stracci insanguinati e la picca, questi borghesi in mantello nero e cappello piumato lo perfezionano sui loro seggi».Su questi due gruppi di uomini che si affrontano non ci sono dubbi: uno è formato da assassini, ma anche gli altri, secondo l’uomo della strada, lo sono ed è come se dicessero: «Lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo». Che differenza c’è allora tra l’uccidere con l’azione diretta e l’uccidere attraverso un processo? Il processo, in realtà, sarebbe un atto antirivoluzionario, Danton infatti diceva: «Noi non vogliamo giudicare il re, vogliamo ammazzarlo».Il carattere antirivoluzionario non è specifico del processo, ma si ritrova già nella legge che lo precede, non nella legge come contenuto, ma nella legge come forma. Così però è solo all’apparenza, perché il contenuto della legge è sempre un comando e il comando è un atto di onnipotenza e come tale non può non essere rivoluzionario. In realtà chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma quello giurisdizionale. Per questo il processo gode di una sua sostanziale autonomia di fronte alla legge. Il processo, una volta istituito, vive di vita propria e si ritorce come una serpe contro colui che l’ha allevata. E infatti i rivoluzionari non furono affatto soddisfatti dei risultati ottenuti dal loro tribunale e già l’anno dopo ne istituirono uno nuovo, perché: «spettava alla Convenzione far sparire tutte le difficoltà che inceppano il cammino della giustizia». Allora Robespierre diede un giro di vite votando subito un decreto per cui «se un processo si prolunga per più di tre giorni, il presidente chiederà ai giurati se la loro coscienza è sufficientemente rischiarata, e se i giudici rispondono di sì, si procederà alla sentenza». Che tradotto significa: sveltite al massimo le procedure per arrivare in fretta dall’aula alla ghigliottina.Quindi anche i rivoluzionari o i presunti tali il processo lo vogliono, per quanto a modo loro, come, due secoli dopo, le Brigate rosse lo vorranno per Moro sottoposto al giudizio del tribunale del popolo. Lo vogliono come una misura di sicurezza per distinguersi dall’assassinio. Ma a parte questo, si chiede Satta, qual è lo scopo del processo? E si risponde che il processo non ha uno scopo, perché lo scopo di un atto è qualcosa che sta necessariamente fuori dall’atto, e lo scopo del processo non sta né nell’attuazione della legge né nella punizione del reo e nemmeno nella giustizia, perché se ciò fosse vero sarebbe del tutto incomprensibile la sentenza ingiusta. Il processo non è che giudizio, anzi, formazione di giudizio, processus judicii, come recitava un’antica formula. Quindi se il processo ha uno scopo ce l’ha in se stesso, che è come dire che non ne ha alcuno. Processo e giudizio sono i soli atti della vita senza scopo. E questo non è un paradosso, secondo Satta, ma un mistero: il mistero del processo e il mistero della vita.Ne L’affaire Moro, Leonardo Sciascia, lo scrittore che più di ogni altro si è interrogato sulle procedure indagandole nella loro essenza, scrive che bisogna riconoscere ai brigatisti in quanto carcerieri un’etica carceraria maturata sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault: «Figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista, gli uomini delle Brigate rosse hanno però respirato la polemica del “sorvegliare e punire” e introdotta questa esile vena libertaria nella loro pietrificata ideologia».Le Brigate rosse – continua Sciascia – resero pubbliche le lettere di Moro finché durò il processo («rendiamo pubbliche le lettere perché niente deve essere nascosto al popolo»), ma dal momento della condanna in poi nessuna delle lettere fu più resa nota da loro. Uomo pubblico durante il processo, e quindi senza diritto al segreto, dopo la condanna a morte i suoi sentimenti andavano tutelati e quindi riacquistavano il diritto alla segretezza.Non c’è omicidio politico che non si sia dato le proprie regole etiche.Ma lo stesso Sciascia, ermeneuta delle sottigliezze del diritto e delle sue degenerazioni come delle acutezze della cultura popolare, si sarebbe certo trovato d’accordo nel vedere il momento più alto della rappresentazione del processo nel capitolo XIX di Pinocchio, quando il burattino, andato a denunciare il Gatto e la Volpe che lo hanno derubato, si trova al cospetto di una severa figura di giudice : «uno scimmione della razza dei Gorilla, rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e per i suoi occhiali d’oro senza vetri (…) Il giudice lo ascoltò con molta benignità, prese vivamente parte al racconto, s’intenerì, si commosse (…) e accennando Pinocchio ai gendarmi disse loro: “Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione"».Certo, le altezze del pensiero. Ma per milioni di italiani, nei secoli, il “mistero del processo” è stato soprattutto questo.