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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Ursula K. Le Guin ripercorre i suoi inizi nel fantasy


Quando ho deciso di scrivere il mio primo romanzo di fantascienza, tra gli anni Sessanta e Settanta, avevo passato la trentina e avevo già scritto diversi romanzi, ma non avevo mai inventato un pianeta. Creare mondi con le parole è una faccenda misteriosa; spero di non sembrare insolente se dico che quelli che lo fanno sanno perché Geova, la domenica, abbia voluto riposare. Ripensando a questo mio primo tentativo, vedo la timidezza, l’impulsività e la fortuna dei principianti, degli apprendisti demiurghi.Quando mi chiedono di “definire la differenza tra fantasy e fantascienza”, bofonchio e borbotto e finisco sempre per parlare dello spettro, quell’utilissimo spettro al cui interno le cose sfumano l’una nell’altra. Le definizioni servono in grammatica, non in letteratura, dico, e le scatole vanno bene per le ossa. Ma ovviamente il fantasy e la fantascienza sono ben diversi, proprio come sono diversi il rosso e il blu; le loro frequenze sono differenti, e se li mescoli ( sulla carta, io lavoro sulla carta) viene fuori il viola, che è qualcos’altro. Il mondo di Rocannon è proprio viola.Quando l’ho scritto sapevo molto poco di fantascienza. Ne avevo letta un bel po’, nei primi anni Quaranta e all’inizio degli anni Sessanta, e tutto quello che sapevo era lì, nelle storie e nei romanzi che avevo letto. Non erano in molti a saperne di più, nel 1964. C’era chi aveva letto più di me e c’era il mondodel fandom, ma pochissimi, a parte James Blish e Damon Knight, ci avevano riflettuto per davvero. La fantascienza veniva recensita nelle fanzine, come scoprii ben presto, ed esaminata dal punto di vista critico in pochissime pubblicazioni, perlopiù la Science Fiction Review e laAustralian Science Fiction Review;al di fuori delle riviste specializzate, le recensioni erano rare e le analisi critiche inesistenti. La fantascienza non si studiava e non si insegnava. Non c’erano scuole, in nessun senso. Non c’erano teorie, solo le opinioni degli editor; non c’era un’estetica. Tutte quelle cose – la New Wave, la scoperta da parte degli accademici, i laboratori Clarion per gli autori, le tesi, le controtesi, le riviste di critica letteraria, i libri di teoria, i paroloni, gli esperimenti entusiasmanti – stavano per piombarci addosso, per così dire, ma non lo avevano ancora fatto, o almeno non nella bolla isolata in cui mi trovavo io. Tutto quello che sapevo era che esisteva un genere di riviste e di libri che gli editori definivano “fantascienza”, una categoria in cui avevo finito per rientrare un po’ per coincidenza e un po’ per disperazione.E quindi eccomi lì, arrivata finalmente a farmi pubblicare, e dovevo scrivere fantascienza. Come? Probabilmente era già in circolazione qualche manuale di scrittura fantascientifica, ma a eccezione del dizionario di inglese ho sempre evitato i manuali, fin dai tempi del corso di scrittura creativa a Harvard in cui mi ero resa conto di essere allergica alla scrittura creativa. «Come si fa a scrivere fantascienza? Chi lo sa?» gridava l’allegro demiurgo (se le Muse sono femmine, immagino che i demiurghi siano maschi) buttandocisi a capofitto. Da allora, il demiurgo ha imparato alcune cose. Le abbiamo imparate tutti. Una di queste è che il rosso è rosso e il blu è blu, e che se uno vuole ottenere il rosso o il blu non deve mescolarli.Nel Mondo di Rocannon c’è parecchia promiscuità. Ci sono le astronavi che viaggiano quasi alla velocità della luce e le astronavi ultra-luce, e ci sono anche la collana di Brisingamen, i destrieri del vento e alcuni angeli stupidi. C’è un utilissimo indumento di nome “tuta difensiva”, che protegge «dal mondo esterno: da temperature estreme, da radioattività, da urti e colpi aventi moderata velocità e forza d’urto, come i colpi di spada e i proiettili di arma da fuoco», al cui interno si sarebbe morti soffocati nel giro di cinque minuti. La tuta difensiva è un buon esempio di quando il fantasy e la fantascienza non sfumano piacevolmente l’uno nell’altra: un simbolo tipico di tutto l’immaginario fantastico – il Mantello della Protezione ( che dona invisibilità eccetera) – viene bardato conuna serie di prolissità pseudoscientifiche e qualche vivida descrizione, e fatto passare per una meraviglia della Tecnologia Futura. Una cosa del genere può funzionare se il simbolo arriva abbastanza in profondità (come nel caso della macchina del tempo di Wells), ma se viene fatta per mera decorazione o convenienza, allora è un imbroglio e avvilisce sia il simbolo, sia la scienza; confonde la possibilità con la probabilità e non arriva né all’una né all’altra. La tuta difensiva è un’invenzione ingegneristica perduta, che non troverete in nessun altro dei libri che ho scritto dopo Il mondo di Rocannon.Forse se lo sono portato via quelli che viaggiano sui carri degli dèi. Questo genere di cosa nasce dall’impulsività della principiante, dalla straordinaria libertà dell’ignoranza. È il mio mondo, posso fare tutto! Solo che, ovviamente, non si può. Proprio come, nella frase, ogni parola limita la scelta delle parole successive in modo che, alla fine della frase stessa, discelta ce ne sia ben poca o proprio nessuna, così (visto? Siccome ho detto “proprio come”, ora devo dire “così”) ogni parola, frase, paragrafo, capitolo, personaggio, descrizione, discorso, invenzione e avvenimento all’interno di un romanzo determina e limita il resto del romanzo; però no, non sto per concludere questa frase come pensavo, perché il mio paragone non è esatto: la frase parlata procede solo in avanti nel tempo, mentre il romanzo, che non viene concepito o detto tutto nello stesso momento, procede in entrambi i sensi, avanti e indietro. L’inizio è implicito nella fine, proprio come la fine lo è nell’inizio. Ogni parte dà forma a tutte le altre.Così, perfino nella fantascienza, tutta quella meravigliosa libertà di inventare mondi e creature e sessi e apparecchiature finisce per diventare stranamente limitata già a pagina dodici. Bisogna essere certi che tutte le cose che si inventano, anche se non vengono citate o addirittura non sono ancora state pensate, siano coerenti tra loro, altrimenti risulteranno tutte scollegate. Con l’aumentare della libertà, ahimè, aumenta la responsabilità.Quanto alla timidezza di cui parlavo prima, si è manifestata nell’eccesso di cautela con cui ho esplorato il mio meraviglioso nuovo mondo: anche se ho spedito il mio protagonista Rocannon nell’ignoto senza alcuna protezione (alla fine perde la tuta), ero propensa a rifugiarmi io stessa in ciò che invece conoscevo molto bene. Per esempio, ho usato frammenti di mitologia nordica. Mi mancava il coraggio dell’esperienza, che dice: «Allora, inventati il tuo cavolo di mito, tanto salterà fuori comunque che è uguale a quelli vecchi». Anziché attingere al mio inconscio personale, ho preso in prestito elementi dalle leggende. In questo caso non ha fatto una gran differenza, perché ero venuta a contatto con i miti nordici prima ancora di saper leggere, e in seguito avevo letto molte, molte volte i miti norreni e poi l’Edda, quindi il mito ha avuto un’influenza fondamentale sulla mia mente, a livello sia conscio, sia inconscio (che è il motivo per cui detesto Wagner). Non mi dispiace davvero di aver preso in prestito qualcosa dai nordici, di certo non gli ho fatto danno; tuttavia, Odino in tuta difensiva... è un po’ una sciocchezza.Questi prestiti hanno interferito anche con le incerte esplorazioni della mia mitologia personale, che compare per la prima volta proprio con questo volume. Ecco perché Rocannon era molto più coraggioso di me. Lui sapeva perfettamente di non essere Odino, ma semplicemente una parte di me, e che il miocompito era di andare verso il terreno condiviso e collettivo del mito, la radice, la fonte, seguendo unicamente la mia strada. È l’unico modo di arrivarci. Ed ecco ancora la timidezza nel popolare il mio mondo. Elfi e nani. Eroi e servitori. Feudalesimo maschilista. L’immaginario dell’Età del Bronzo del fantasy eroico. La Lega dei Mondi.Non sapevo ancora che la componente scientifica della mia scrittura sarebbe stata soprattutto scienza sociale, psicologia, antropologia, storia e così via, e che avrei dovuto capire come usare tutto quel materiale e anche come lavorarci sodo, perché nessun altro, allora, aveva ancora fatto molto in quell’ambito. Mi sono limitata a prendere quello che avevo a portata di mano, il motore ultra-luce e l’Età del Bronzo, e a usarlo senza pensarci troppo, riservando il coraggio dell’autentica invenzione alle fantasie più pure: gli Alati, i destrieri del vento, i Kiemhrir.Un coraggio minore, ma piacevole, che ho praticamente perso. Con il passare del tempo non si può portare tutto con sé. Spero di non dare l’impressione di voler criticare questo libro, o peggio, di voler cercare di disinnescare le critiche anticipandole, un aspetto molto viscido nell’arte dell’autodifesa letteraria. Questo libro mi piace. Come Bilbo, più della metà mi piace quasi il doppio di quanto meriti. Di certo oggi non lo scriverei, ma posso leggerlo; e a distanza di tredici anni riesco a vederne serenamente i difetti e anche i pregi – i Kiemhrir, per esempio, e Semley, e alcune delle cose che dice Kyo, e la gola dove si accampano vicino a una cascata. E alla fine va bene.