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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

I cento giorni di Trentini nelle carceri di Caracas


Sono passati cento giorni da quando Armanda Trentini ha sentito suo figlio Alberto, per l’ultima volta. Era il 15 novembre e Alberto era appena arrivato all’aeroporto di Caracas: doveva raggiungere, come capomissione della sua Ong, alcuni villaggi all’interno del Paese per portare aiuti in particolare alle persone disabili. E invece è stato fermato a un posto di blocco e arrestato dal servizio immigrazione e immediatamente consegnato nelle mani del Dgcim, la direzione generale del controspionaggio militare di Nicolas Maduro. Da quel momento non ci sono più notizie ufficiali su di lui.Non ha mai chiamato casa. Non è riuscito a incontrare i nostri diplomatici di stanza in Venezuela. Non gli sono mai state formalizzate delle accuse. Ci sono stati una serie di contatti a livelli di servizi di intelligence – Aise ha sicuramente effettuato almeno un viaggio a Caracas – nel corso dei quali sono arrivate rassicurazioni sullo stato di salute di Alberto, l’informazione che sarebbe detenuto in una prigione di Caracas gestita dal Dgcim e poi poco più. La Farnesina e Palazzo Chigi hanno fato sapere alla famiglia e al loro legale, l’avvocata Alessandra Ballerini, di essere al lavoro, chiedendo una sorta di “silenzio stampa”, cosa a cui fino a questo momento la famiglia Trentini si è rigorosamente attenuta, ma al momento non c’è stato alcun passo in avanti. Sul caso si è mosso personalmente il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha chiamato la mamma di Alberto per esprimerle la vicinanza sua e di tutti gli italiani.Trentini è da considerarsi a tutti gli effetti “un ostaggio”. Il Venezuela sta arrestando cittadini occidentali nella speranza di ottenere un riconoscimento dai governi, che difficilmente però potrà arrivare dal’Italia, durissima nel non riconoscere il governo Maduro. Per Trentini era la prima volta nel Paese sudamericano. Lo aveva inviato l’Ong con cui lavorava, Humanity & Inclusion. Alberto non era noto ai nostri Servizi né faceva parte di gruppi di oppositori: nel telefono, come ammettonoanche alcune fonti venezuelane, c’erano giusto un paio di post social critici, assolutamente innocui e nient’altro di più. Alberto era in Venezuela non per caso. Ma per amore. Si era innamorato di una ragazza che abita in Venezuela e aveva selezionato quella missione e quella Ing per starle vicino.In Italia molto si sta muovendo a favore della scarcerazione di Alberto e per un impegno del governo italiano. Sono 75mila le firme raccolte in una petizione su Change.org e diverse voci si sono alzate nel mondo dello spettacolo, cultura, della politica. I genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, hanno fatto sapere di essere vicini alla famiglia di Alberto. Si è mobilitato anche il mondo delle ong. «Quella di Alberto è una detenzione ingiusta, ogni giorno in più dietro le sbarre è un giorno rubato alla sua vita, al suo lavoro e alle persone che serve» dicono dalla Protect Humanitarians, prestando la voce all’intero mondo della cooperazione. «Chiediamo con urgenza la governo italiano di agire per riportare Alberto a casa. E al Venezuela di porre immediatamente fine a questa detenzione ingiusta».