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 2025  febbraio 23 Domenica calendario

Intervista a un ex minatore sardo

Signor Antonio Caria, che bello quel quadretto là sul muro.
«È la fotografia del Pozzo Nuovo di Bacu Abis, frazione di Carbonia, dove ho lavorato per 20 anni. Non ci sono immagini dell’interno perché i giornalisti non hanno mai avuto il coraggio di scendere. Quella lì a fianco invece è la cartina della zona di Buggerru, dove vivevo: la chiamavano la “Piccola Parigi” per il lusso e i soldi».
Le manca la Sardegna?
«Sì e no. L’ultima volta ci sono stato in vacanza nel 2018 e ora non sento più la necessita di tornarci. Sto bene qui a Busto Arsizio: mi sono trasferito nel 1970 e ho la mia vita, la mia serenità».
Abita solo?
«Con mio figlio Gian Mauro. E sono il cuoco di casa».
Le piace stare ai fornelli?
«Cucino tutti i giorni, il menù in questa casa è vario e cambia sempre: spezzatino, risotto, ravioli, gnocchetti, pasta ai frutti di mare».
E ci abbina del vino sardo? 
«Un bicchiere di rosso, non di più. Però niente mirto: i liquori non li bevo da anni».
Oltre a cucinare cosa fa?
«Pulisco, lavo i piatti, rifaccio il letto. Io non sto mai fermo. Purtroppo non riesco più a leggere perché ci vedo poco, ma ogni tanto esco con le altre figlie per fare la spesa: cammino col bastone, però qualche passo lo faccio ancora».
Sa quale è la domanda classica che a questo punto si fa ai centenari, vero?
«Quale è il segreto per arrivare a questa età? Guardi, nel mio caso glielo dico subito: credo di avere un angelo custode che mi ha aiutato in molte situazioni, afferrandomi per il collo e salvandomi. Come quella volta in miniera, posso raccontarglielo?».
Certo.
«Siamo negli anni ‘50, arrivo al pozzo per il turno di notte e un collega mi dice: “Caria, guarda che oggi non si può lavorare”. Entro e il sorvegliante mi spiega che deve recuperare la chiave del cantiere che sta sotto, non sa come fare. “Vado io”, gli dico. Mi incammino e dopo mezzora arrivo al punto più basso. Non c’è aria, vedo la testa della chiave ma, mentre sto per prenderla, si spegne improvvisamente la luce. E mi ritrovo a 240 metri di profondità al dodicesimo livello, tutto solo, al buio e con pochissimo ossigeno».
Urca e come fa?
«Mi muovo lentamente per non rischiare di cadere e tengo una mano sulla fronte per paura di sbattere la testa, sto in mezzo ai binari per capire il tragitto e riparto. Finché, ad un certo punto, vedo in lontananza una luce, tipo un bagliore, che mi indica la strada giusta. Nessuno sarebbe uscito vivo in una situazione così e invece...».
È l’angelo custode? 
«Chissà, ci penso sempre». 
Ma quando ha capito di essere protetto?
«Quando, un giorno, mi hanno dato questa immaginetta dell’istituto Antoniano Padri Rogazionisti di Napoli. Legga cosa c’è scritto, la conservo qui nel portafoglio».
“Gli angeli custodi sono messaggeri di Dio, ci guidano, ci sorvegliano e, se li preghiamo con fede, sono pronti a soccorrerci nelle difficoltà. Benvenuto angelo custode di Antonio Caria”.
«Io sono convinto che il mio angelo custode mi abbia sempre protetto, fin da quando ero piccolo».
Torniamo indietro nel tempo, allora, e raccontiamo la sua vita dall’inizio.
«Nasco il 17 gennaio 1921 a Castiadas, vicino a Cagliari. Papà Giovanni fa il minatore e ho un fratello di sei anni più grande che si chiama Efisio. Sa quando è morto? Nel 2019, a quattro giorni dal suo 104esimo compleanno».
Ah, anche lui longevo. Scusi, e sua madre?
«Si chiama Giuseppina, ma praticamente non faccio in tempo a conoscerla perché muore quando io ho solo 3 anni e non mi restano suoi ricordi».
Bimbo timido?
«Molto. Sempre mano nella mano con Efisio perché ho paura di tutto. Un giorno stiamo passeggiando e sentiamo un bambino che chiama sua madre. Guardo mio fratello: “Perché noi non abbiamo la mamma?”. “Perché è morta”, risponde. E io: “Tu l’hai conosciuta?”. “Sì”. “Era bella?”. “Bellissima”. Da quel momento non ne abbiamo mai più parlato».
Che tenerezza, Antonio. Restiamo alla sua infanzia. Come mai quello sguardo?
«A 4 anni mi ammalo di malaria, ho la febbre altissima e tremo dal freddo. Non mi passa e allora papà mi porta a Lunamatrona dai nonni, nell’entroterra verso Oristano».
E guarisce?
«Deliro, sto malissimo e nonna Efisia, in dialetto perché non parla italiano, mi fa prendere una medicina particolare, il chinino. Non voglio, insiste e poi mi blocca a forza, mi apre la bocca e mi fa deglutire la pastiglia. Salvandomi».
Scuole?
«Quando ho 6 anni muore il nonno, papà non sa fare l’agricoltore e allora ci trasferiamo tutti a Buggerru, dove c’è la miniera e si trova lavoro. Carichiamo tutto ciò che abbiamo su un carretto col cavallo e facciamo il trasloco: 100 km di strada, viaggio interminabile».
Come è la nuova sistemazione?
«Viviamo in 5 in un stanza: io, mio fratello, nonna, papà e zia. Il primo giorno di scuola mi presento scalzo perché non ho scarpe e i compagni mi fissano come se fossi una bestia rara. E mi metto a piangere».
Le piace studiare?
«Molto e sono bravo, nelle prime tre elementari ho voti altissimi. Poi, però, papà – che si è risposato con la sorella di mamma – perde il posto nella miniera per la crisi del ’29 e nel frattempo ha il primo di altri 6 figli. Allora inizio a lavorare, imparo a zappare, mietere, custodire l’asinello. E contemporaneamente studio fino alla quinta da privatista con l’aiuto di alcuni insegnanti».
E lei, poi, quando trova posto in miniera?
«A 18 anni. Il primo giorno incrocio un vecchio che sta per andare in pensione. Mi guarda e dice: “Auguri...”».
Nel frattempo scoppia la guerra.
«Mi mandano a fare il militare ad Alghero, all’aeroporto».
Aviere?
«Sì, ma non volo: lavoro al bar dei sottufficiali. Finché un maresciallo dei carabinieri mi vuole con lui e divento un carabiniere vestito da aviere».
Ma del conflitto ha qualche ricordo?
«I bombardamenti di Alghero del 17 maggio 1943: ci nascondiamo dietro la recinzione dell’aeroporto mentre gli inglesi sganciano gli ordigni».
Finita la guerra che cosa fa?
«Torno a casa in licenza per tre mesi in attesa del congedo e un amico mi dice: “Se vuoi guadagnare tanto arruolati nei carabinieri”. Mando la domanda e sono in attesa di partire, quando vedo una ragazza bellissima, si chiama Gilla. Ci conoscevamo fin da piccoli, ha otto anni meno di me e il nuovo incontro ci fa innamorare. Allora vado dal maresciallo: “Io vorrei sposarmi, che faccio?”. “Se sei carabiniere non puoi”, risponde. “E se presento una disdetta?”. E lui: “Sì, fallo subito”. Così scelgo il matrimonio».
Quando salite sull’altare?
«Nel dicembre del 1946. Nel 1948 poi nasce Gian Mauro, nel 1950 Giuseppina, nel 1951 Rosangela e nel 1954 Annibale, che però muore a soli 5 anni e mezzo. Con Gilla siamo stati insieme 70 anni: è deceduta nel 2017».
Tziu Antonio, raccontiamo della vita in miniera.
«Posso partire da un aneddoto?».
Prego.
«Il 18 dicembre 1938 sono presente all’inaugurazione di Carbonia, città costruita per ospitare le maestranze impiegate nelle miniere di carbone. Arriva Benito Mussolini, lo vedo da vicino. Ricordo ancora le sue parole: “Oggi, il 18 dicembre dell’anno XVII dell’era fascista, nasce il più giovane comune del regno d’Italia: Carbonia”. E ancora: “Sotto lo stimolo dell’autarchia, questa vecchia, fedelissima e per troppo tempo dimenticata terra di Sardegna rivela i suoi tesori”».
Che memoria!
«Aspetti, non è finita. Subito dopo il discorso del Duce parla Achille Starace e annuncia che ogni operaio riceverà 100 lire. E sono tanti soldi, se pensa che la mia paga quotidiana in quel periodo è di 9 lire al giorno».
Torniamo a lei. Dopo la guerra riprende a lavorare sotto terra e lo farà per 20 anni.
«Un inferno. Si sta solo seduti, si cammina inginocchiati, si estrae il carbone a mano, si respira male e si rischiano tanti incidenti. E spesso ci scappa il morto».
A quanti metri è sceso come massimo?
«A 270. Per fortuna non ho mai subito gravi infortuni, solo due ferite alle mani e 5 punti di sutura sulla fronte. Però ora ho la silicosi per aver respirato la polvere di carbone».
Antonio, quando smette di lavorare in miniera?
«Nel 1968: trovo un impiego nelle poste e mi sembra di essere sempre in ferie. Poi vengo a Busto Arsizio per un anno e faccio il facchino, torno in Sardegna per lavorare in fonderia e alla fine mi stabilisco definitivamente qui, portando tutta la famiglia, nel 1970. E per 13 anni faccio il bidello al liceo artistico, per poi andare in pensione nel 1983, a 62 anni».
Ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Sono credente, ma non praticante».
2) Paura della morte?
«Nemmeno lontanamente, non ci penso proprio».
3) Ha compiuto 104 anni, ma quanti se ne sente?
«Sento solo qualche piccolo acciacco, non certo l’età».
4) La tecnologia le piace?
«Non mi interessa».
5) Si sta meglio adesso o si stava meglio 100 anni fa? 
«Molto meglio adesso». 
Ultimissima. Ha ancora un sogno?
«I desideri sono spariti da tempo, però ho un piccolo rimpianto: mi sarebbe piaciuto viaggiare di più per conoscere meglio l’Italia».