Avvenire, 22 febbraio 2025
La moglie di Marconi salvò una famiglia ebrea: ora è Giusta tra le Nazioni.
Lo Yad Vashem ha comunicato alla figlia Elettra il riconoscimento per Maria Cristina Bezzi-Scali. In questi giorni l’incontro toccante della donna con Chiarella Pollitzer, una delle tre sopravvissute. Maria Cristina Bezzi-Scali, moglie di Guglielmo Marconi, fa ora parte della schiera dei “Giusti tra le Nazioni”. La notizia del riconoscimento, conferito a chi ha salvato vite di ebrei dalle persecuzioni nazifasciste è stata data alla 94enne figlia Elettra e al nipote Guglielmo Giovanelli Marconi dallo Yad Vashem, il memoriale della Shoah che ha sede a Gerusalemme. I due hanno accolto il riconoscimento con grande commozione, fino alle lacrime. Lacrime di gioia. Per una felice coincidenza, inoltre, la comunicazione è giunta proprio nel giorno in cui Chiarella Pollitzer, una delle tre persone salvate durante i tremendi giorni del rastrellamento degli ebrei nella Roma occupata, ha compiuto 98 anni.
La storia è rimasta finora nel silenzio. Maria Cristina Marconi non ne ha fatto cenno nel suo memoir Mio marito Guglielmo (uscito postumo nel 1995 per Rizzoli). Per una forma di riserbo e di rispetto verso gli amici, ma anche perché – proprio come loro – non amava tanto riandare a quei giorni. E poi perché la vita va avanti.
Alla vigilia del compleanno e dell’inattesa comunicazione che conferisce a Maria Cristina la medaglia di “Giusta tra le Nazioni”, Elettra ha fatto visita a Chiarella nella sua casa romana. Un incontro semplice e toccante, durante il quale le due donne erano circondate dall’affetto dei figli: quattro dei sei avuti da Chiarella (che ha anche 12 nipoti e 9 pronipoti) e Guglielmo. Era presente anche la scrittrice Paola Fargion, che due anni fa ha portato la vicenda all’attenzione dello Yad Vashem. L’ultimo incontro tra le due anziane risaliva al 1994, quando furono celebrati i funerali della benefattrice. Tra un tè e un pasticcino sono stati rievocati momenti belli e brutti della vita di due famiglie legate da decenni di affetto.
Tra i momenti brutti c’è sicuramente la mattina del 16 ottobre 1943, il giorno della razzia del Ghetto. La 16enne Chiarella rievoca quella mattina in cui era nell’Istituto Cabrini, dove si era trasferita perché accettava allievi di origini ebraiche, dopo che dalla precedente scuola era stata cacciata per via delle leggi razziali. «Una compagna di classe è arrivata in ritardo, dicendo che nel suo palazzo stavano arrestando tutti gli ebrei. Uno era scappato ed era stato inseguito. Allora mi sono preoccupata e ho iniziato a fare la cartella sotto il banco», racconta Chiarella. Poi il padre è andato a prenderla. Destinazione l’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, che è adiacente a Palazzo Bezzi-Scali, in via Condotti. I genitori – Renato Pollitzer, medico di fiducia della famiglia, e Nora Prister – trovarono invece rifugio nell’abitazione dove fino alla morte, avvenuta nel 1937, aveva vissuto l’inventore della radio e dove risiedeva con i genitori la vedova Maria Cristina. Dividere la famiglia era il modo per dimezzare il rischio che una retata li prendesse tutti e tre. Pollitzer – irredentista triestino trasferitosi a Roma nel 1918 per non servire nell’esercito austroungarico contro gli italiani – si era già rivolto a Maria Cristina nel 1938 per intercedere presso Mussolini, in modo da non incorrere nei rigori delle leggi razziali. Ma invano, nonostante il prestigio internazionale del defunto Marconi, premio Nobel e presidente dell’Accademia d’Italia e del Cnr. Pollitzer, dunque, perse la cattedra universitaria in Pediatria.
Non si pensi che per i Bezzi-Scali, famiglia nobile e cattolica, strettamente legata al Vaticano, la vicenda sia stata priva di rischi. Tutt’altro. Tanto che sul portone del loro palazzo l’ambasciatore spagnolo, Domingo de las Bárcenas, fece affiggere un cartello sul quale era scritto che anche lì valeva la protezione diplomatica. Una cautela in più di fronte al fatto che «i tedeschi non si facevano certo tanti scrupoli a entrare nelle case private e anche nelle chiese» sottolinea il nipote di Maria Cristina, Guglielmo. Fu la donna, insieme alla sua famiglia e al vicino diplomatico, insomma, a tirare le fila di questa operazione. Della quale furono “complici” il conte Francesco, brigadiere generale delle Guardie nobili del Papa, la moglie Anna Sacchetti, Maria Cristina e la 13enne Elettra. Con loro viveva anche Antonio Bezzi-Scali, fratello di Maria Cristina, classe 1898. Ufficiale dell’esercito, di fede monarchica, dopo l’8 settembre 1943, come molti altri, non accettò la repubblica di Salò e si diede alla macchia, diventando un ricercato dei nazifascisti. Si camuffò facendosi crescere una lunga barba e in quel 16 ottobre 43 scappò da Palazzo Bezzi-Scali, nascondendosi in luoghi diversi ogni giorno per sfuggire alla cattura. Un gravissimo ulteriore rischio per i salvatori, che in gran parte erano donne di tre generazioni diverse, e i salvati.
Nei due mesi di nascondimento la paura dominava, insieme alla solitudine, all’incertezza per il futuro e, ricorda oggi Chiarella, alla noia. In quelle giornate la si tenne occupata facendole accudire un bambino piccolo (anche lei, poi, sarebbe diventata pediatra come il padre). «Non sono bei ricordi, ma sono talmente lontani», dice oggi l’anziana. Per chi ha vissuto da adolescente la persecuzione non è facile tornare a quei giorni. Il dottor Pollitzer, ricorda Guglielmo Giovanelli Marconi, gli raccontava come in quei giorni avesse trovato conforto nella lettura della Divina Commedia, i cui versi, anni dopo, ancora recitava a memoria.
L’ospitalità data ai Pollitzer alla fine, per fortuna, non generò pericoli concreti. «Siamo stati molto bravi. Anche grazie a mia nonna Anna, che teneva tutto sotto controllo», dice Elettra. Erano tempi in cui anche mettere il naso fuori di casa era rischioso. Quando mesi dopo vide arrivare gli attesi Alleati la ragazza, curiosa, uscì. «Sentii delle pallottole dei tedeschi che mi fischiavano sulla testa. Mio nonno mi aveva seguito e mi disse di buttarmi a terra e di avanzare come un serpente. Una porta si aprì ed entrammo, sempre strisciando. Così ci siamo salvati. È stato tremendo».
Per entrambe le donne la gioia più grande di quel periodo fu naturalmente la ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli Alleati. Elettra ricorda la prima jeep con i militari australiani dagli strani cappelli. «Mi tirarono su e mi volevano dare da bere la birra, ma io non la bevevo. Perciò mi diedero cioccolatini e caramelle. Ma io sento ancora l’odore di quella birra». E a casa sua andarono in visita il generale Clarke e vescovi americani. Regnava ormai un’atmosfera che parlava di vita che riprendeva. A Chiarella invece è rimasto impresso il fatto che un tedesco in ritirata strappò la carrozzina di mano a una mamma per metterci dentro il suo zaino. Un gesto che fa capire come quei soldati fossero allo sbando.
Amicizia e riconoscenza proseguirono nel Dopoguerra. Da ambo le parti. Renato, dopo aver curato negli anni bui tutti i membri della famiglia (e si occupò anche del figlio dell’ambasciatore Bárcenas) fino alla morte, avvenuta nel 1992 a 98 anni, fu sempre presente nella vita dei Bezzi-Scali e Marconi. Assistette nel 1967 alla nascita di Guglielmo. Curò sempre l’anziana Maria Cristina, morta due anni dopo di lui. Ed Elettra che da adulta ci scherzava su, dicendo di avere come medico un pediatra. Ora ha anche una mamma “Giusta tra le Nazioni”.
Paola Fargion e Meir Polacco: far riemergere il bene
La vicenda che ha visto protagonista Maria Cristina Bezzi-Scali è solo la punta di un iceberg del bene che molti italiani, a rischio della propria vita, hanno fatto per mettere in salvo perseguitati ebrei dalle deportazioni. A far riemergere molte di queste storie dall’oblio si dedica da anni la scrittrice Paola Fargion, ebrea milanese, che con il marito Meir Polacco è in costante ricerca di persone o istituzioni che hanno salvato ebrei durante la Shoah. Dopo aver raccolto la documentazione di ogni vicenda Meir la traduce in ebraico e la inoltra al Memoriale Yad Vashem la cui Commissione è deputata a valutare e conferire il riconoscimento di “Giusti tra le Nazioni”. Tra i tanti casi in valutazione a Yad Vashem, almeno una decina riguarda suore e sacerdoti. Sono centinaia i casi emersi che in parte riguardano anche vescovi e conventi di clausura, a Roma e su tutto il territorio nazionale. Un esempio recente è quello di Umberto Adamoli, ultimo podestà di Teramo e tenente colonnello della Guardia di Finanza, riconosciuto un mese fa “Giusto tra le Nazioni”.
La vicenda di salvezza Marconi-Pollitzer è arrivata quasi per caso all’attenzione di Fargion, grazie alla sua amicizia con Guglielmo Giovanelli Marconi, figlio di Elettra che, durante una cena ha deciso di rivelarle questo segreto di famiglia. Una conoscenza dovuta ad antiche relazioni. Il nonno di Paola, l’ingegner Eugenio Fargion, è stato, infatti, fino alle Leggi razziali. l’amministratore delegato dell’Industria aeronautica Caproni, il cui patron Gianni era imparentato con la famiglia Giovanelli. A partire da questa esperienza personale la scrittrice racconta con toni accorati quanto ha toccato con mano parlando con molti suoi correligionari, per i quali il fatto di essere stati salvati non ha escluso il trauma, l’orrore, la paura.
Questo è uno dei motivi per cui Fargion sottolinea l’importanza della memoria e della riconoscenza per la salvaguardia della vita, un principio fondamentale che – ricorda la scrittrice – per l’ebraismo supera perfino l’osservanza del sabato. «I numeri della Shoah dicono che oltre i due terzi dell’ebraismo italiano si sono salvati. Anche a Roma. E ciò è avvenuto in parte autonomamente, in parte con l’aiuto di singoli, di istituzioni e a Roma in gran parte grazie all’apporto di conventi e strutture religiose». Perciò per Fargion ringraziare è «obbligatorio». Tanto più che proprio quest’anno cade una ricorrenza dimenticata, ma significativa in tal senso: i settant’anni dall’istituzione, nel 1955 – decimo dalla Liberazione – del Giorno della Riconoscenza da parte dell’Unione delle comunità israelitiche italiane. In quell’occasione furono istituite in tutte le comunità ebraiche italiane dei comitati incaricati di promuovere tale riconoscenza. «Sono fioccate a migliaia da ogni luogo d’Italia le testimonianze di chi ha avuto salva la vita grazie a benemeriti che in minima parte sono ad oggi riconosciuti “Giusti tra le Nazioni”. Da questo bacino di testimonianze di grande valore storico e morale in parte attingiamo per il nostro lavoro di recupero di nomi di potenziali “Giusti tra la Nazioni” che Yad Vashem non conosce. E nemmeno l’Italia».