Avvenire, 21 febbraio 2025
Con i soldati al fronte. «Abbiamo fatto il possibile per fermare Putin».
I militari di Kiev rimasti in prima linea vogliono la fine della guerra ma non indietreggiano davanti ai russi. «Se non avessimo combattuto, sarebbe stato peggio. Trump? Ditegli che non è finita».
Il soldato con la barba coperta di neve ha un piano: «Non possiamo uscire allo scoperto. Da dietro agli alberi faremo scivolare un canotto verde sul ghiaccio. Dovranno credere che vogliamo prenderli alle spalle. Se ci cascano, useranno le granate e romperanno il lastrone». È una cattiva idea per una buona causa: liberare quattro cigni intrappolati nell’acquitrino diventato ghiaccio. Funzionerà. E sarà l’unica buona notizia sulla linea del fronte.
Le cannonate mandano in frantumi i blocchi opalescenti che sfondano una vecchia canoa sulla riva. I quattro pennuti dispiegano le ali bianche e se la filano via, liberi e spaventati. Tra Kherson e Bilozerka non c’era rimasta che la gente in armi: russi dall’altra parte del Dnepr, ucraini da questo lato a tenere a bada le intenzioni di riconquista moscovite.
Quaggiù, dove il grande fiume si apre al mare che in poche bracciate bagna la Crimea annessa da Mosca nel 2014, la chiamano “guerra di posizione”. Per i civili è guerra e basta. Ancora ieri c’è chi ha perso la casa e dalla strada guarda il condominio sventrato: le foto di famiglia attaccate ancora alla parete, la lavatrice con l’oblò aperto, il piano di cottura che penzola dal terzo piano.
La gente della prima linea, quei pochi rimasti contro ogni buon consiglio, vorrebbe solo che finisse. «Abbiamo fatto il possibile», ragiona Vjačeslav, il giovane soldato volontario che in tre anni s’è fatto vecchio prima ancora di diventare uomo. Parla come se dovesse tirare le somme: «Li abbiamo cacciati via da Kiev, da Bucha, da Irpin, da centinaia di villaggi e da Kherson. Adesso controllano neanche il 20% dell’Ucraina. Si sono presi Mariupol e si sono presi la nostra giovinezza. Più di così non possiamo». E il presidente Zelensky oramai non ripete più il mantra della riconquista «centimetro per centimetro».
Vjačeslav è contento per i cigni tornati liberi. Dice che hanno preso la rotta orientale, proprio dove ci sono i russi e per lui è la metafora della guerra. Essersi battuti, aver piantato la bandiera gialloblu fin dove si poteva, e adesso accettare che una parte del Paese finisca comunque tra le braccia del nemico: «La gente che non è qui a combattere non lo capisce: poteva andare peggio, e se non troveranno una soluzione andrà peggio». Il cattivo presagio del ragazzo con il fucile non è figlio del pessimismo di chi ha perso i compagni e non si sa spiegare com’è che lui sia ancora qui e tutto intero. Gli altri undici di quello che loro chiamano “squadrone” – sporchi e inspiegabilmente vitali dopo tre anni di fango, neve, amici fatti a brandelli e nemici ammazzati da perderne il conto – annuiscono mentre si guardano intorno come a chiedersi se sia meglio tentare una nuova incursione o tenere la posizione. «Guarda questo schifo – dicono mostrando una cassa di munizioni –. Alcuni mesi fa vi ho fatto vedere quelle arrugginite arrivate dall’Italia, ma queste sono anche peggio, e le fabbrichiamo noi in Ucraina». Quello che sta cercando di dire è che mancano non solo le forze per resistere. «Senza le forniture dall’Europa e dall’America non arriveremo neanche all’estate, tanto vale trattare subito e tenerci quello che abbiamo».
Perfino la retorica a un certo punto deve fare i conti con la realtà. Perché è facile ordinare da Kiev l’assalto, quando poi si scopre che ci sono generali inetti e politici che di guerra campano. A Kharkiv gli ufficiali sotto inchiesta sono quattro: l’accusa è quella di non avere previsto e organizzato linee di difesa, facilitando il contrattacco russo del maggio scorso. A Kherson sono indagati diversi imprenditori accusati di aver fatto la cresta perfino sui lavori per i bunker nella città dove le forze di Mosca sono in linea d’aria a meno di 300 metri.
E anche chi torna dalla guerra dopo essersi battuto, finisce per trovarsi una medaglia di più, una gamba di meno, e neanche una casa. Come i veterani a cui per legge spetta un’indennità e un alloggio. Questo dicono le norme, ma le scartoffie e i funzionari della burocrazia post-sovietica non brillano per elasticità. Con moglie e due figli a carico, il fuciliere rimasto invalido non ha più neanche una casa. Da sei mesi aspettava una risposta, ed è arrivata: «Niet», in russo, come indica la modulistica di prima della guerra. Perché la famiglia possiede un appartamento ad Antonivka, dove secondo il sindaco il 90% degli edifici è danneggiato. Il villaggio scorre sulla riva del fiume e guarda in faccia le linee di artiglieria moscovita. Dei 13mila abitanti ne sono rimasti 1.300: solo vecchi e 10 minorenni. In altre parole, nessun pubblico ufficiale si prende il rischio di andare a controllare se la casa del veterano è ancora in piedi. Troppo rischioso. E siccome il registro pubblico dice che un appartamento di proprietà ce l’hanno, in mancanza di una certificazione che ne attesti l’inabitabilità, alla famiglia non spetta un alloggio di stato. «Pensavo di dover combattere per l’Ucraina – dice ai cronisti che lo raggiungono –, e invece devo combattere contro la burocrazia ucraina».
Non è l’unico paradosso dei tre anni di guerra. Putin fra due giorni ne annuncerà la vittoria. Un bluff, ma che forse potrà dichiarare chiusa la fase acuta della “operazione militare speciale”, e tra parate e negoziati pensare al dopo.
Del Cremlino, però, nessuno si fida. Nell’ultimo giorno 12 civili sono stati uccisi, oltre 80 edifici sono stati irrimediabilmente danneggiati nella sola Kherson, mentre infrastrutture strategiche per l’elettricità e il riscaldamento sono state bersagliate lungo tutti i mille chilometri di frontiera armata nelle regioni di Kharkiv, Donetsk, Kherson, Nikopol e Zaporizhzhya, secondo i funzionari locali. Circa 183 persone sono state evacuate da Donetsk, ha affermato il capo regionale Vadym Filashkin in un post su Telegram.
I combattenti che vorrebbero tornare a casa ma non si arrendono su Trump non vogliono dire una parola. Per tutti è ormai “il traditore”. «L’Ucraina non ha carte da giocare», ha detto il tycoon. «Fategli sapere che non è finita», ci saluta Vjačeslav con la promessa di restare vivo «come da tre anni a questa parte». Fango e neve sui sentieri dell’artiglieria si impastano. Il frastuono dei cannoni sta per riprendersi la scena. I soldati spostano gli obici per non farsi individuare. Prima del tramonto ricomincerà il tiro incrociato: «Scrivetelo che forse perderemo la guerra, ma un giorno abbiamo salvato quattro cigni».