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 2025  febbraio 22 Sabato calendario

Il Covid può aver reso i giovani più sfiduciati nei confronti della politica

In questi giorni siamo tornati a parlare molto di Covid, giustamente: sono ormai passati cinque anni dall’inizio della pandemia, se questo evento in Italia viene fatto coincidere con il riconoscimento del “Paziente 1”, il 20 febbraio 2020. Le date simboliche a livello globale sono però molte di più: i primi casi segnalati in Cina risalgono a fine 2019, il 30 gennaio 2020 avviene la dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica da parte dell’Oms, mentre l’11 marzo successivo si registra la “promozione” a pandemia. La data sulla quale il mondo intero si ritrova veramente unito è comunque un’altra: il 5 maggio 2023, il giorno in cui con grande sollievo viene dichiarata la fine dell’emergenza. Dobbiamo parlarne, è necessario continuare a farlo, anche se il sentimento cui ci si vorrebbe abbandonare è quello della rimozione, perché la natura umana ha questo tragico e bellissimo istinto che suggerisce di elaborare il lutto, definire una memoria, ma poi rimettersi a camminare senza voltarsi troppo indietro. Il problema è che il Covid non è terminato con la fine dello stato di emergenza: il bilancio dei suoi effetti travalica l’aspetto sanitario, e potrà essere compilato definitivamente forse solo tra molti anni. Pensiamo ai giovani. Alle ferite, interne ed esterne, che la pandemia ha scavato in una generazione. Alle molteplici manifestazioni con cui l’ansia ha conquistato il suo posto nell’universo giovanile, senza nemmeno il conforto di un vaccino. Non è sempre facile identificare i veri motivi scatenanti, l’origine più profonda del malessere. Cosa è stato, veramente? La sospensione delle relazioni? La percezione di una reclusione generazionale e selettiva? Il confinamento digitale? Il sacrificio pubblico della speranza? Lo svelamento della sotterranea crisi collettiva di senso? Anche di questo si è parlato molto e se ne discuterà a lungo. La vastità della trasformazione è stata tale da aver prodotto fenomeni che fatichiamo a considerare conseguenze della pandemia. Come, ad esempio, la fiducia nella politica e nelle istituzioni da parte dei giovani, aspetto che tende a emergere col tempo, e probabilmente lo sta già facendo. Un’analisi elaborata proprio durante la crisi Covid dal Systemic Risk Center della London School of Economics aveva rivelato che i giovani tra i 18 e i 25 anni – l’età in cui si è più impressionabili – ai quali capita di essere esposti a epidemie, hanno più probabilità di sviluppare una successiva mancanza di fiducia nelle istituzioni, nei leader politici, nei governi e persino verso i risultati delle elezioni.
La sfiducia generale “nel sistema” sarebbe poi ancora più decisa nei Paesi in cui i governi si sono dimostrati incerti nel gestire l’emergenza sanitaria, e può condizionare a lungo il modo in cui si agirà politicamente e si voterà in futuro, da adulti. Cinque anni dopo è un po’ presto per redigere bilanci, ma il virus degli estremismi e della radicalizzazione che sembra contagiare alcuni contesti giovanili può rappresentare l’eredità meno scontata di una stagione mai del tutto chiusa. Allora se c’è anche un’ansia democratica da curare, più che di un vaccino il long-Covid politico e sociale potrebbe avere bisogno di una solida cura ricostituente, della fiducia.