il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2025
Metti Amleto in una sfilata di moda: che thriller.
Si dice che il tocco del grande regista si veda dalla prima inquadratura del film. Non sempre, ma quando accade, è una festa per il cinema, specie se il presunto talento è poco più che un esordiente.
È il caso del francese Xavier Legrand, classe 1979, acclamato vincitore di due premi alla Mostra veneziana nel 2017 con il suo primo lungometraggio, L’affido, che firma un secondo film ancor più riuscito, compatto e – se vogliamo – ipnotico, a partire appunto dalla sua prima inquadratura.
L’erede, da giovedì nelle sale, parte da una festosa e frenetica sfilata di moda a forma di serpentone: le modelle volteggiano, s’atteggiano, il pubblico adorante applaude attendendo che lo stilista divo chiuda la performance. Ma per Ellias Barnès (Marc-André Grondin, bravo) quel serpentone diventa presto una spirale che conduce dal paradiso all’inferno. La trama del percorso è nascosta nei codici del thriller che Legrand utilizza magistralmente combinandoli al dramma esistenziale, al neo-noir, e alla tragedia classica e scespiriana, laddove il protagonista Ellias tanto si rispecchia in novelli Edipo, Oreste e Amleto. Al centro, infatti, è il suo rapporto con una figura paterna ingombrante di oscuri segreti e terrificanti lasciti.
Lo stilista non può prescindere dal tornare figlio, vittima di qualcosa che lo sovrasta e lo imprigiona nonostante abbia cercato di prenderne le distanze da anni. È lo specchio di un’eredità da estirpare, ma come?
Opera claustrofobica, nerissima, psicoanaliticamente angosciante, di fattura e interpretazioni ammirevoli, quella di Legrand s’interroga con profondità sulle radici dell’identità e sul peso del destino nella libertà di scelta. Da vedere.