la Repubblica, 22 febbraio 2025
Le accuse dell’Aia a Roma sul caso Almasri
ROMA – L’Italia non «ha rispettato l’obbligo di collaborare con la Corte penale internazionale». E lo ha fatto consapevolmente, facendo in modo che il presunto assassino e torturatore libico Osema Almasri non fosse arrestato. E tornasse liberamente in Libia. «Esponendo vittime e testimoni, nonché le loro famiglie, a un potenziale e grave rischio di danno». Il procuratore dell’Aia Karim Khan ha chiesto, come annunciato, il deferimento dell’Italia all’Assemblea degli Stati e al Consiglio di sicurezza dell’Onu per non aver rispettato l’articolo 87 del trattato di Roma.Che al comma 7 prevede appunto che «se uno Stato non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzione» finisca sotto procedimento.Nelle 14 pagine il procuratore Khan ricostruisce tutta la storia di Almasri indicando quelli che, secondo la Cpi, sono stati gli errori e i buchi. E soprattutto le omissioni che il governo Meloni avrebbe messo in fila fino a questo momento, a partire dai presunti vizi di forma e di sostanza nelle comunicazioni.«L’Italia – si legge nell’atto – è stata correttamente informata della richiesta di arresto la sera di sabato 18 gennaio, prima dell’arresto di Almasri. La trasmissione è stata eseguita attraverso i canali indicati dall’Italia, vale a dire l’Ambasciata». Dal ministero della Giustizia dicono, però, che la comunicazione sia stata letta soltanto lunedì 20 gennaio. «Anche se fosse così è irrilevante» scrive Khan. «Il fatto chele autorità competenti non abbiano adottato le necessarie misure di coordinamento interno non costituisce di per sé una valida giustificazione per non adottare le misure. La trasmissione ritardata e il mancato coordinamento interno costituiscono un mancato rispetto della richiesta di cooperazione».Sin dal principio, il governo si è sempre rifugiato nella circostanza, vera, che sia stata la Corte d’Appello di Roma a scarcerare il presunto torturatore libico sulla base di un’interpretazione della legge: era obbligatoria, hanno sostenuto i giudici, una interlocuzione preventiva – mai avvenuta – tra il tribunale e il ministero della giustizia.«Anche accettando questa interpretazione della legge, contestata dalla maggior parte dei commentatori accademici, il ministero – si legge nell’atto – avrebbe dovuto rispondere alla richiesta del procuratore generale e trasmettere il 20 gennaio le richieste» al tribunale. Questo «avrebbe consentito alla Corte di appello di Roma di ordinare nuovamente la misura cautelare di Almasri». Ecco perché, sostiene Khan, «la decisione del ministero di non trasmettere le richieste al procuratore generale il 20 gennaio, come richiesto dallo Statuto, equivale a un mancato rispetto di una richiesta di cooperazione». A nulla, secondo il procuratore della Cpi, sono servite le difese italiane di queste ore. Anzi.«L’Italia – si legge – ha identificato due questioni presumibilmente critiche». La presunta incertezza sul momento della commissione dei crimini (c’erano degli errori materiali nella prima stesura dell’atto, poi sanate dalla corte) e le “perplessità” sollevate dalla giudice María del Socorro Flores Liera che aveva votato contro. «Anche supponendo che queste questioni critiche esistessero, il che non è vero, l’Italia non ha consultato la Corte per risolverle» scrive Khan. «Se lo avesse fatto, le questioni sarebbero state chiarite e risolte il 20 gennaio». Il ministero avrebbe avuto il tempo di trasmettere le richieste al procuratore generale e alla Corte d’appello e «avrebbe potuto ordinare nuovamente la detenzione di Almasri». «Il mancato coinvolgimento costruttivo e la mancata consultazione della Corte non appena l’Italia ha identificato le presunte questioni critiche» si legge, infine, «equivale a un mancato rispetto di una richiesta di cooperazione». Da qui il deferimento. L’Italia potrà ora tornare a difendersi: il processo sarà lungo ma il caso politico è scoppiato.