Linkiesta, 22 febbraio 2025
L’impossibilità di spiegare il presente con destra e sinistra
«Non sono mica i fatti, a cambiare le persone, di fatti puoi tirargliene in faccia a iosa e non cambiano idea: sono le emozioni». L’ha detto qualche tempo fa Sarah Silverman a Bill Maher. Tecnicamente sono due comici, che come sappiamo sono i nuovi filosofi.
«Se mi chiedete cos’è meglio fare adesso, vi dico: non ne ho idea. Ma fate qualcosa». L’ha detto al Parlamento europeo Mario Draghi, del quale prima di questa io ricordavo soprattutto la frase «Volete la pace o l’aria condizionata», e chi conosce le mie caldane conosce la mia risposta.
«Non abbiate mai paura. Non abbiate mai paura di alzare la voce in nome dell’onestà e della verità e della compassione, e contro l’ingiustizia e la menzogna e l’avidità». Lo dice William Faulkner nel 1951, subito dopo aver vinto il Nobel, a un discorso agli studenti dell’università dove si laurea la figlia, e ogni volta che qualcuno condivide quel filmato sui social io ho l’impressione che venga diffuso con l’ammirazione che si riserva a un Nobel e alle sue inarrivabili intuizioni, e non per dire che somiglia tragicamente al discorso d’una miss in gambissima che invochi la pace nel mondo.
In quel cortile senza selezione all’ingresso che sono i social, c’è un modo di posizionarsi dalla parte dei giusti ancora più efficace di Faulkner che dice che bisogna essere compassionevoli, mica avidi; è dire che è di destra chiunque obietti alla divisione in destra e sinistra. È quest’ultima l’affermazione più stupida che essere umano possa fare? Forse sì.
Tanto per cominciare, è un’affermazione che prevede che chi è di destra sia una timida creatura timorosa delle proprie opinioni e che, non riuscendo proprio a dirsi di destra perché se ne vergogna troppo, preferisca argomentare che non si sa bene cosa sia la destra e cosa la sinistra (questo è il momento in cui, se eravate vivi negli anni Novanta, vi parte in testa il motivetto di Gaber).
Poi, c’è la vera questione, per ignorare la quale devi essere un piazzista che vende iscrizioni a un partito, un influencer che vende posizionamenti politici e tisane drenanti, un bolognese fermo prima della giacca marròn di Occhetto. La questione è che destra e sinistra sono categorie troppo semplici per essere d’una qualche utilità in questo secolo.
Quando risponde che lui si dice volentieri antifascista, ma che è una domanda imbecille perché più che sapere cosa pensa d’un regime d’ottant’anni fa bisognerebbe chiedergli cosa pensi della privacy o dei satelliti, Carlo Conti pare Slavoj Žižek, in confronto a giornalisti convinti che la domanda intelligente da fargli sia quella sull’antifascismo, che a dirci chi è sarà la sua disponibilità a pronunciare la parolina magica che lo colloca dal lato giusto del quadro.
Tempo fa ho visto, in una serie di video con cui la Criterion Collection – i dvd dei classici del cinema per il mercato statunitense – si promuove sui social, Chiara Mastroianni che parlava d’un film col padre, “I compagni” di Monicelli. Diceva una cosa tipo: ora voi penserete certo, sei francese e parli di scioperi. Poi aggiungeva: ma sono anche italiana.
“I compagni” è ambientato a fine Ottocento, in un’epoca inimmaginabile per i trentenni di oggi che passano le ore lavorative sui social a lamentarsi che quaranta ore a settimana siano un sopruso, che non poter lavorare da casa sia un sopruso, che passare in ufficio ogni ora di veglia sia un sopruso (si vede che dormono sedici ore: che invidia).
È un film in cui gli operai si battono perché i turni siano di meno di quattordici ore, in modo che la stanchezza della quattordicesima ora non gli faccia lasciare un braccio nel macchinario. Fantascienza per un dibattito pubblico in cui, nonostante esistano ancora i morti sul lavoro, sembra che l’emergenza di cui discutere sia che al social media manager è richiesto d’andare in ufficio invece che lasciarlo lavorare in pigiama.
Il fatto è che i morti sul lavoro non siamo noi, e questo ce lo ricorda ogni morto sul lavoro visto sui giornali, mai appartenente alla classe sociale di chi partecipa al dibattito pubblico. Un dibattito in cui la posizione di sinistra è che dobbiamo accogliere gli immigrati (perché col cazzo che a raccogliere pomodori ci va mio figlio, fuori corso a Scienze politiche), e quella di destra è che gli immigrati portano disordine sociale, violenza, cazzi e mazzi (ho smesso di guardare i talk show ma sono pronta a ricominciare se qualcuno s’impegna a chiedere a un ospite dal lato anti-immigrazione: sì, ma poi lo sa quanto costano i pomodori se ci tocca pagare decentemente lavoratori occidentali?).
Se avete mai visto un contratto di quelli che le piattaforme di streaming fanno a chi lavora per loro, sapete che in essi il firmatario cede i diritti su qualunque idea che possa venire a lui e alle prossime sette generazioni della sua famiglia, anche in deroga alle leggi del diritto d’autore italiane, americane, ovunque. Quasi ovunque, perché a un certo punto compare una clausola che dice che c’è qualcosa che non cedi. I «droits de redevance, disciplinati dalla Société des Auteurs» eccetera eccetera, per i territori francofoni.
Chiara Mastroianni sapeva quel che diceva. Mi chiedo se esista una variazione di quella scena del “Sol dell’avvenire” in cui, alla dirigente che gli dice che i loro prodotti sono visibili in centonovanta paesi, Nanni Moretti risponda: in uno solo dei quali esiste ancora qualcuno che pensa a difendere i diritti dei lavoratori dalle multinazionali cattive che non gli vogliono dare i soldi, altro che le sedici ore al giorno immaginarie. Solo che insomma, non è che si possa pensare che capotavola della sinistra sia dove siedono quei privilegiati che lavorano per il cinema. E quindi?
“I compagni” è del 1963, cioè d’un secolo in cui destra e sinistra erano categorie adeguate per il presente. Adesso che è tutto talmente complicato che neanche Draghi ha idea di cosa fare, adesso che è tutto talmente emotivo che ha ragione la Silverman e Obama è riducibile a «hope» e Trump è riducibile a «fear», adesso la destra e la sinistra a me paiono un cascame anche commovente, anche decorativo, ma non più utile del juke-box al Bar Luce della Fondazione Prada.
L’altro giorno mi è passato davanti su Twitter (o come si chiama ora) uno scambio tra Guido Vitiello e Alfonso Lanzieri sulla responsabilità dei talk show nella diseducazione del pubblico. La me di quindici anni fa avrebbe detto che no, che la natura della tv è essere orrenda, che non bisogna volerla pedagogica. La me di oggi pensa che, se la tv fosse stata meno orrenda, sarebbe diventata irrilevante ancora prima di quanto sia accaduto.
I telefoni con dentro spettacoli d’arte varia avrebbero vinto contro Funari, figuriamoci contro “Apostrophe”. Certo, puoi vietare l’invenzione dell’intrattenimento facile per costringere l’umanità a mantenere sinapsi capaci di arrivare in fondo a un paragrafo di Proust, ma temo che l’impegno culturale imposto non funzioni.
Due settimane fa Ilaria Salis è andata da Fabio Fazio, che guardo nel televisore da almeno trent’anni e non ho mai visto fare tanta fatica a far dire frasi di senso compiuto a qualcuno che stesse intervistando: sembrava un professore buono che sta cercando di far prendere la sufficienza a una scolara in difficoltà. Il libro che la Salis era lì a piazzare è uscito la settimana scorsa, e io questa settimana guardavo i miserandi dati di vendita e mi sono chiesta quand’è avvenuto lo scollamento, e se sia un male.
Quand’è successo che l’elettorato di sinistra ha deciso che sì, va bene, votiamo per toglierla da una galera ungherese perché è inaccettabile che ci stia (quelle italiane, invece, tutte resort), votiamo perché abbia ventimila euro di stipendio perché poverina, ma il confine dell’accettabilità lo poniamo prima del libro: le memorie di Ilaria Salis no, è troppo, non mi avrete. Un po’ come quando al tavolo esterno del ristorante s’appropinqua il quattordicesimo mendicante della giornata: perdindirindina, sono di sinistra ma siamo agli antipasti e ho già finito gli spicci.
È successo all’altezza di Soumahoro? Di Zaki? Quand’è che l’elettorato di sinistra ha detto adesso però basta, mi sento più ceto medio riflessivo a leggere Valérie Perrin che a comprare la saggistica firmata dalle figurine ideali del club dei giusti, considerato che queste figurine ideali non riescono a mettere due parole in fila e insomma non è che abbia senso nutrire grandi speranze nei loro comizi o nella loro letteratura – quando?
E a quel punto la domanda successiva è come ci aggiustiamo con le conseguenze. Può Feltrinelli, editore italiano di sinistra per antonomasia, liberarsi del tic per cui se una figurina di sinistra vuol fare un libro loro non possono non pubblicarlo? Prima o poi un editor con funzioni di bambino di fronte ai vestiti nuovi dell’imperatore si chiederà come mai, se la cultura è di sinistra come ha ricordato l’anno scorso Elly Schlein, il libro di Giorgia Meloni venda così vertiginosamente di più di quello della Schlein?
Lo so, lo so: la cultura è come le azioni di Mediobanca, si pesa e non si conta. Il problema è che il libro della Meloni è qualitativamente meglio di quello della Schlein, anche se non ci mettiamo a contar le copie. Poi certo, sono comunque due libri per il pubblico analfabeta d’un secolo in cui il PhD di cittadinanza ha inspiegabilmente prodotto un elettorato più fesso di quello che si fermava alla quinta elementare. Però sospetto che il buco di comprensione che ci accomuna – che accomuna me, Draghi, il mondo – non lo colmeremo con automatismi sulla destra e la sinistra.