Corriere della Sera, 22 febbraio 2025
Dupond Moretti, da cameriere a ministro di Macron
Il più celebre avvocato di Francia racconta in teatro di quel giorno di luglio 2020 in cui il segretario dell’Eliseo si appresta a leggere in tv la lista dei ministri. Lui, Éric Dupond-Moretti, figlio di macaroni arrivati in Francia dalla provincia di Macerata, dall’età di quattro anni orfano del padre operaio e cresciuto dalla madre donna delle pulizie, sarà Guardasigilli. Pochi minuti prima dell’annuncio, quell’uomo grande e grosso all’epoca quasi sessantenne (ora ne ha 63) telefona alla mamma, Elena. «È sopraffatta dall’emozione. E la prima cosa che mi dice è ma ragazzo mio, chi ti laverà la biancheria?”».
Il pubblico del Marigny ride, entra dentro la storia. Ogni sera, e fino a giugno, Dupond-Moretti svela nella sala a pochi passi dall’Eliseo i retroscena, personali ma non solo, dei suoi quattro anni al governo nello spettacolo J’ai dit oui. «Ho detto sì», alla proposta di diventare uno dei ministri più importanti dell’esecutivo, momento definitivo di un riscatto sociale perseguito con rabbia, abnegazione, e un talento straordinario.
Incontriamo Dupond-Moretti nel camerino del teatro Marigny. Una conversazione un po’ in francese un po’ in italiano come i due passaporti dell’avvocato e attore, ormai ex ministro, accanto al docile cagnolino teckel Jean-Claude che in ottobre lo ha accompagnato nel lungo viaggio solitario in macchina verso le radici italiane e i ricordi da Nizza, dove vive, a Castelraimondo nelle Marche, «passando per Liguria, Lombardia, Romagna, San Marino dove ho ancora degli amici, e Fabriano, e il monte Cucco dove sono andato tante volte con la mia famiglia. Poi Assisi, e sulla via del ritorno Siena, Firenze, Pisa».
Era poi riuscito a rassicurare sua madre?
«Sì, ma quella domanda mi ha toccato. C’era uno scarto così grande tra le sue parole e la funzione che mi attendeva... Ma parlando di biancheria la mamma (in italiano, ndr) si aggrappa a un mondo che conosce bene e che la rassicura. Ed è un mondo che ho conosciuto e che rassicura anche me. Mi ha chiamato gamin, ragazzino. Alla mia età».
Da solo sul palco parla dell’emozione di entrare nel governo, di Macron e dei premier Philippe e Castex, delle invidie e delle cattiverie, dello scontro con alcuni magistrati. Alla fine, il pubblico scatta in piedi per applaudire. Si aspettava la standing ovation?
«Se dicessi di no vorrebbe dire che non credo in quello che faccio, e non mi piace la falsa modestia. Credo che il pubblico si accorga della mia sincerità. È questo quello che conta, e vale per un attore, per un avvocato e anche per un politico. Se non c’è sincerità le persone lo sentono e la corrente non passa».
Come mai la sua famiglia è arrivata in Francia?
«È venuto prima mio nonno, con il suo figlio maggiore. Avevano fame. Sono andati nel Nord, a Maubeuge. Poi quando hanno visto che c’era lavoro hanno fatto salire il resto della famiglia. Ma poi mio nonno è stato assassinato. Hanno ritrovato il corpo lungo i binari del treno. Non c’è stata una vera inchiesta, a nessuno importava veramente. Era un immigrato, un italiano, un macaroni o un Rital come si diceva a quei tempi».
Lei che idea si è fatto di quel delitto?
«Forse è stata una questione di donne, non sappiamo bene. L’uccisione di mio nonno fa parte del Dna della mia famiglia, ne parlavamo sempre. Mia mamma si è sposata con un francese, mio padre Jean, ma le feste, il Natale, il Capodanno, le passavamo sempre con la parte italiana, e con i cannelloni fatti in casa. Credo che la vocazione di avvocato mi sia venuta almeno in parte da quella vicenda rimasta misteriosa, da quel senso di ingiustizia».
Perché ha voluto aggiungere Moretti al cognome?
«Mio padre è morto di cancro quando avevo quattro anni, mia madre Elena Moretti mi ha allevato da sola. Il mio doppio cognome è un omaggio a lei e alle mie origini. Ho cominciato a firmarmi Dupond-Moretti, e così ho potuto registrare il nome d’uso per il quale ero ormai noto. Quando sono diventato ministro, ho promosso una legge che ha esteso quella possibilità a tutti e ha consentito a oltre 100 mila persone di cambiare nome, per i motivi più vari».
Prima del viaggio in autunno, le era capitato di andare in Italia da ministro?
«Sì perché ho lavorato molto bene con i miei colleghi, sia Marta Cartabia sia Carlo Nordio. Sono andato in Italia per copiare la legislazione sui pentiti e il sequestro dei beni ai criminali».
E la mancata estradizione degli ex brigatisti?
«Mi è dispiaciuto, perché con Macron avevamo ritirato fuori il dossier e fatto tutto il possibile perché fossero finalmente giudicati, in Italia. La Corte di Cassazione francese invece ha ritenuto che avessero ormai un diritto alla vita famigliare in Francia. Vorrei sapere che cosa avrebbe detto la Cassazione se Salah Abdeslam, il terrorista del Bataclan, fosse scappato in Italia, si fosse sposato e avesse fatto tre figli... Già Cesare Battisti aveva ingannato tutti, lo ha detto lui stesso appena estradato dal Brasile: ho preso in giro la sinistra francese. Ma la magistratura è indipendente».
Nel suo spettacolo lei non è tenero con certi magistrati, specie quelli che l’hanno messa sotto inchiesta per abuso d’ufficio.
«Era un’inchiesta assurda e sono stato assolto. Ce l’ho con alcuni giudici, non tutti. Come capo di gabinetto mi ero scelto una magistrata, la bravissima Véronique Malbec».
Prima di fare il ministro della Giustizia lei è stato l’avvocato più celebre di Francia perché ha difeso i clienti più disparati, dal campione di calcio Karim Benzema all’imprenditore Bernard Tapie, e soprattutto perché ha ottenuto centinaia di proscioglimenti. Il suo segreto?
«Posso avere pronunciato arringhe convincenti, ma un processo si vince prima. Un buon avvocato è quello che vede qualcosa che gli altri hanno trascurato, è colui che trova la falla nella ricostruzione dell’accusa e riesce a instillare il dubbio nella giuria. Chi giudica deve dubitare, deve avere voglia di lasciare andare l’accusato, e questo è possibile solo si è lavorato molto da un punto di vista tecnico. L’arringa finale serve ma non basta. Comunque, di processi ne ho anche persi».
Come quello in cui difendeva Abdelkader Merah, fratello e complice del terrorista autore della strage di Tolosa, condannato a trent’anni. Perché volle difenderlo?
«Perché la possibilità di difendersi in un processo è esattamente ciò che distingue la civiltà dalla barbarie degli islamisti. Durante il processo divenni amico di Samuel Sandler, a cui Mohamed Merah uccise il figlio trentenne e i nipotini di sei e tre anni. Mi diceva “peccato non averla dalla nostra parte”. Ma era importante che persino un uomo accusato di delitti spaventosi avesse un avvocato».
È un po’ lo stesso approccio che le fa detestare la pena di morte, non è vero?
«Sì, e ogni tanto in Francia qualcuno torna a proporla. Mi dicono “vorrei vedere se toccassero uno dei tuoi figli...”. Ma se qualcuno facesse del male a mio figlio vorrei vederlo fatto a pezzi, è ovvio. In quel caso però sarei vittima, non avvocato, sono piani diversi. E il giudice deve restare equidistante tra vittima e accusato. Altrimenti diventiamo come i barbari che processiamo».
Da ministro ha dovuto rendere noto il patrimonio suscitando molti commenti.
«Come se lo avessi rubato. È vero, nella mia vita sono riuscito a guadagnare molto. Ma solo grazie alla qualità e alla quantità del mio lavoro. Ho cominciato a lavorare da ragazzino, e ho fatto ogni genere di mestiere per andare all’università, mantenermi e diventare avvocato».
Per esempio?
«Cameriere, ma anche buttafuori in discoteca, e beccamorto, scavavo le fosse nei cimiteri. Per questo mi fanno ridere quando si indignano perché ho una Maserati. Una bella macchina italiana, ecco di nuovo il mio lato macaroni... Quanto mi piace... Per diventare ministro ho lasciato la carriera da avvocato, e ho accettato 6.800 euro netti al mese. Ci sono stipendi peggiori, certo. Ma da avvocato guadagnavo 14 volte di più».
A teatro a un certo punto lei rivendica di amare la caccia, la corrida, e il barbecue. Una frecciata alla deputata femminista Sandrine Rousseau, che critica i maschi amanti della carne rossa e invoca l’avvento di un «uomo decostruito»?
«Sì, mi fanno un po’ ridere queste prese di posizione... Quando faccio il barbecue me ne occupo io perché voglio evitare a mia moglie di bruciarsi, è solo una piccola forma di galanteria. Quanto ai diritti delle donne, credo sia più importante l’aver contribuito a mettere nella Costituzione francese il diritto all’interruzione di gravidanza, o l’avere riformato la prescrizione nei casi di violenza sessuale: ormai il fatto non prescritto permette di giudicare anche i fatti prescritti commessi dalla stressa persona».
Che cosa pensa di Emmanuel Macron adesso?
«Lo difendo: lo accusano di avere provocato il caos con le elezioni anticipate, ma avrebbe dovuto farlo comunque perché il governo sarebbe caduto sulla legge di bilancio. E poi siamo in democrazia, il suo voto vale quello di chiunque altro. Il Parlamento è bloccato ma lo hanno deciso i francesi, non Macron».
Che cosa farà ora?
«Non posso tornare alla toga, ormai. Ho fondato una mia società di consulenza, e poi mi dedicherò al teatro, anche se non voglio che diventi un mestiere, lo faccio per sentirmi un po’ libero».
E se tornasse al luglio 2020, davanti al presidente che le chiede di diventare ministro?
«Anche conoscendo tutto quel che mi aspetta, direi di nuovo sì».