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 2025  febbraio 22 Sabato calendario

Biografia di Silvio Orlando

Generalità: «Sarò breve. Mi chiamo Silvio Orlando, sono nato a Napoli il 30 giugno del 1957, di domenica, alle undici di sera, nei Quartieri Spagnoli. Oltre a mio padre e a mia madre, in famiglia, c’erano già un fratello e una sorella. Arrivai molto dopo di loro e quella condizione mi fece sentire un po’ intruso e un po’ ospite inatteso. Non dico che i miei genitori non mi volessero, ma di certo ero capitato un po’ per caso. In famiglia, qualche crudeltà gratuita provocava grande ilarità: “Da dove sei venuto fuori?”, “Ti hanno scambiato nella culla?”. Così decisi di saperne di più e scoprii che a insistere per farmi venire al mondo, dopo una breve discussione e nonostante andasse verso i 50 e fosse considerato quasi un anziano, fu mio padre. Un uomo molto simpatico, con dei tempi comici che non ho più ritrovato in nessun altro». Da questo straordinario interprete, scelto in ordine sparso da Moretti, Sorrentino, Virzì, Mazzacurati, Capuano e Salvatores, capace di vincere una Coppa Volpi, tre David di Donatello, tre Nastri D’argento, due globi d’oro e un Premio Pasinetti, non troverete, neanche scavando, alcuna forma di autopromozione: «Non ho mai sgomitato e se l’ho fatto, non me ne sono neanche accorto perché sono uno che quando vedo i gomiti alti dice: “scusate, posso passare?”. A volte ho avuto la fortuna di capitare nel momento giusto, altre meno. Però c’è un’eccezionalità che mi riconosco e non ha niente a vedere con l’essere un bravo attore». Qual è? «La capacità di non vergognarsi della propria umanità e per quanto possibile, di tenere sempre una porticina aperta per la poesia».Quanta poesia e quanta umanità c’erano a casa sua? «Il sogno del ceto medio era liberarsi dal quartiere fatiscente e dal delirio del popolino, come lo chiamavano allora, trasferendosi in un luogo più vivibile. A tre anni mi trasportarono al Vomero, figlio della cementificazione ben raccontata da Rosi in Le mani sulla città. Andammo ad abitare proprio nei palazzi ripresi nel film e però c’erano l’ascensore, le cinque stanze, i marmi, il posto per la macchina. Era una famigliola armoniosa e c’era una dolcezza di fondo». Letture? «A mio padre non ho mai visto un libro in mano, mia madre invece aveva una sua cultura e leggeva molto. Nei pomeriggi di solitudine, attingendo alla sua collezione, ho scoperto Twain, Kafka, Tomasi di Lampedusa: i primi turbamenti amorosi, direi ormonali, vengono da lì». Che mestiere facevano i suoi genitori? «Mia madre era casalinga. Mio padre era un commesso viaggiatore, vendeva macchine fotografiche e lavorava per la Ferrania che aveva l’ambizione di trasformare un hobby d’élite in passatempo di massa. Della materia non sapeva nulla, ma comunicava da dio. Era capace di farti ridere quando e come voleva: con una faccia e una smorfia. Andava a Milano, conquistava la platea e portava a casa il risultato. Il suo datore di lavoro era bresciano: mi chiamo Silvio a causa sua». In che senso? «Un giorno suggerì a mio padre di chiamarmi così, lui gli estorse immediatamente un regalo costoso, un ciondolo che ancora possiedo e insomma, per dire com’erano gli anni 50 e i rapporti di forza tra padroncini e dipendenti, Silvio fu. Il lavoro di mio padre andava molto bene. Divenne in breve dirigente e il benessere sembrava fondersi con i sogni di scalata sociale. Però le famiglie piccolo borghesi, lo saprà, sono sempre in attesa della catastrofe in arrivo e la catastrofe, puntualmente, si presentò. Mia madre si ammalò e poi morì e io mi ritrovai in casa con mio padre sessantenne e con mia nonna. In una famiglia di anziani, un po’ perché i miei fratelli ovviamente facevano la loro vita e un po’ perché quando accadono cose simili ognuno porta dentro di sé il dolore in maniera diversa e cerca di salvarsi a modo proprio». Lei ebbe modo di vedere sua madre sfiorire? «Per tre anni e questa cosa, ancora più dell’addio, ha rappresentato un elemento fondativo. Non c’è niente che come uomo e come attore non sia stato determinato da quella esperienza». Era poco più che un bambino. «E da primo orfano della classe mi ritrovai precipitato in una logica totalmente ribaltata. Se meritavo 6, la maestra mi metteva 7 a prescindere: resistere alla tragedia da ometto rappresentava una forma di eroismo. Quando ci fu il primo tema sulla festa della mamma mi chiesero se volessi evitarlo. Risposi di no. Poi scoprii che era scomparsa anche la mamma di un mio compagno e unicità ed eroismo passarono in secondo piano». Quella maestra fu importante? «Svelò in maniera miracolosa la mia attitudine alla recitazione. Improvvisammo una pièce. Interpretai Pinocchio e lei andò in estasi. Radunò le altre insegnanti e officiò il trionfo. Poi mi dette da studiare per le vacanze il monologo di Marco Antonio. Mi aspettavo allori e lei fu gelida: “Tutto qui? Bene, vai al tuo posto”. Dopo il trionfo ci fu il primo tonfo. Del mestiere, quel giorno capii molto». Quando ha capito che voleva fare l’attore? «Presto, ma dubitavo di riuscirci. Avevo un complesso che ancora mi accompagna legato alla comprensibilità di ciò che dico. Ho la tendenza a mangiarmi le parole e una dizione disastrosa che con il tempo ho provato a migliorare». Come provò a superare il complesso? «Forse proprio attraverso il mio handicap, ma è stata dura perché, come posso dire? Io sono un’anima debole. E debole era diventato, pur essendo un uomo forte di sangue sannita, anche mio padre. Aveva provato a indirizzare mio fratello quand’era ancora in forze, ma quando arrivò il mio turno era ormai stanco. Tra noi si trattò di uno scontro tra fragilità, ma capì che non l’avrebbe mai spuntata». Suo padre fece in tempo a capire che aveva ragione lei? «Quando andai a Milano per trovare qualche ingaggio, partii veramente con la valigia di cartone. Però ebbi fortuna, cominciai a lavorare in tv e lui che era un disincantato, fece in tempo a stupirsi. Avevo comprato una casetta minuscola: mi aveva prestato dei soldi per metterla a posto. Pensava che non sarei mai stato in grado di restituirgli nulla e invece gli ridiedi tutto». Cosa ricorda degli anni della tv berlusconiana e della Milano di metà anni 80? «Tutti avevano il sole in mano e c’era una corsa generalizzata a fare soldi. Nelle tv commerciali entrai per una di quelle casualità che mi inducono a dire che non ho meritato niente e si è trattato soltanto di una serie di botte di culo». Ci permettiamo di dissentire.«Salii a Milano per recitare in uno spettacolo di Salvatores intitolato Comedians. Eravamo io, Rossi, Bisio e Catania. Gino e Michele scrivevano i testi. Furono loro, che collaboravano con Antonio Ricci, un genio, a farmi approdare in tv. Il primo impegno fu una specie di parodia di Star Trek. Davo la voce a un robot: Esposito B12. A Ricci fui simpatico e mi arruolò in quella follia di Matrioska: un programma che nei suoi piani non prevedeva censure. Era un macello, dentro c’era qualsiasi cosa».Ebbe vita breve. «Intervenne Berlusconi e decise di metterci mano. Riunì in una saletta le sue guardie del corpo e gli autisti, e gli fece vedere la trasmissione: “Dite cosa vi piace e cosa no”. Tra le quattro cose salvate c’era anche la mia».La salvò un autista. Disse: «Mi piace Silvio Orlando». «Neanche Silvio, disse solo “quello lì"». Berlusconi allora ci convocò ad Arcore. Sabina Guzzanti, David Riondino, Pangallo e io. Arrivai con 45 minuti di ritardo. Alla fine Berlusconi ci portò a fare un giro». Al mausoleo? «Non ci considerava meritevoli di vedere i suoi “morti”, ci mostrò però una sorta di piscina sotterranea accanto alla quale con il pianoforte intratteneva gli ospiti». Fu simpatico? «Come fa a non essere simpatico uno così? È chiaro: è il padrone degli anni 50’, quello che ti manda il panettone a casa, ma era difficile non assolvere chi ne restava soggiogato». Lei però di destra non è mai stato. «Ma io lì dentro non ho mai avuto problemi politici, al limite esistenziali. Faticavo perché l’aria era irrespirabile, i tre canali erano in guerra tra loro e si inseguiva costantemente il complotto». Era finito in disgrazia? «Il contrario. Dopo l’incontro con l’unto del Signore, le mie quotazioni erano alle stelle. La guardia giurata sollevava il cancello al primo sguardo e pur essendo negato, alla partita di calcetto, Ezio Greggio non faceva altro che passarmi la palla. Mi proposero un contratto in esclusiva e poi all’improvviso arrivò il cinema. Nanni Moretti venne a vedere uno spettacolo e mi offrì un’occasione, ma voleva che smettessi di apparire in tv. “Non se ne parla” risposi. Non erano sullo stesso piano e il cinema mi interessava più, ma non volevo rinunciare a qualcosa per decisione altrui». A “Palombella rossa” partecipò comunque. «A Nanni serviva il personaggio dell’allenatore, un espediente utile a prendere fiato da una storia delirante che non aveva neanche una sceneggiatura. Le battute non erano scritte e Moretti ci veniva a portare dei fogliettini per impararle all’impronta. Fu un’esperienza di isolamento totale. Partimmo che c’erano 40 gradi e finimmo con la neve sull’Etna tra incomunicabilità, crolli nervosi e tensioni».Ha stima di lui? «Enorme. Non ha mai realizzato film che non lo riguardassero davvero. Se non vibrava, preferiva non girare. Ha contribuito in maniera decisiva a dare forma alla mia maschera cinematografica. Senza incontrarlo, della mia vita non so cosa sarebbe stato. Avrei fatto l’attore perché non mi aveva trovato a vendere calzini, però permettermi di esserlo nel modo in cui lo sognavo a 17 anni, coniugando successo e contenuti, lo devo assolutamente a Nanni. Feci la mia parte, ma nel dare-avere lo sbilanciamento era evidente». Il rapporto tra voi è stato dialettico? «Sempre. Alla fine del film fu molto gentile e mi ringraziò perché avevo dato al personaggio più di quanto non immaginasse. Disse che mi aveva scritto una lettera». Cosa c’era scritto? «Non me la mandò, credo per punirmi. Non avevo voluto partecipare a un suo corto sulla dissoluzione del Pci». Per dire no a Moretti serve carattere. «Due o tre bussole nella vita, le ho tenute. La principale è la dignità. Rifiutare ciò che non mi convince mi fa sentire meglio. Per fortuna esiste il teatro: è il mio baricentro, mi tiene lontano dalle tentazioni e mi preserva dall’accendere mutui. Sono un dramma, i mutui: sia per le carriere rivoluzionarie che per le carriere artistiche. Nessuno prenderà la Bastiglia se ha un debito e nessuno farà scelte artistiche difficili se ha una rata da pagare». Cos’è il successo per lei? «Un guscio vuoto: se non lo riempi di contenuti non ti basta mai. È una perversione che ti fa pensare sempre a ciò che non hai avuto e che avresti potuto avere. Io appartengo al partito dell’abbastanza. Michele Serra aveva la tessera numero 1. Io la numero due». Ha mai provato invidia nei confronti di qualcuno? «Molte volte. A costo di passare per livoroso lo ammetto e anche se fatico a dirlo, faticherei ancora di più a negarlo. Potrei mentire, ma non sono quel tipo di essere umano. Un po’ me ne vergogno? Sicuramente. Ma bisogna provare a essere sinceri, o meglio ancora, credibili. L’invidia è la grande rimozione collettiva. Cerchi un invidioso, non trovi nessuno e sembra che tutti gioiscano dei successi altrui. Beati loro. Io invece penso che l’invidia esista e abbracci le pulsioni istintive. Poi devi essere bravo a trasformarle in qualcosa di positivo e ad avere un po’ di pietà per te stesso». Che carattere si riconosce? «Penso di essere una persona sensibile, anche troppo, che non ha ancora imparato a farsi scivolare le cose addosso. Forse è una peculiarità degli attori, gente che ha sempre bisogno di conferme, ma una forma di malessere te la porti sempre dietro». L’umiltà è un valore? «Senza umiliazione è un valore enorme. Proprio come l’etica che è qualcosa di più dell’onesta e ti definisce». Se si guarda indietro cosa vede? «Una generazione di pazzi, la mia, che ha voluto confrontarsi con chi il cinema l’aveva fatto veramente e aveva creato un proprio canone. Noi siamo arrivati dopo. Rischiavamo da un lato il manierismo e dall’altro il ridicolo involontario e il velleitarismo. Abbiamo iniziato senza maestri perché la generazione di grandi attori che oggi viene santificata era arida, avara e sterile. Non aveva nessuna voglia di insegnarti alcunché e non mollando la posizione neanche in punto di morte, ha lasciato un deserto. Gli anni ’80 sono stati terribili per il cinema italiano. Anni di prodotti rozzi e abborracciati. Noi su quelle macerie abbiamo provato a costruire qualcosa e tra un tentativo maldestro e un altro afflitto dalla noia, abbiamo collezionato anche tanti fallimenti. Forse le generazioni che verranno dopo di noi riusciranno meglio». Lei sul set si diverte? «No. Forse con Avati, ma a chiacchierare. Sul set si alternano noia infernale e stress insostenibile. In mezzo? Il niente». Regista e attore possono essere amici? «Difficile. Lentamente, il rapporto tra attore e regista si trasforma inesorabilmente in richiesta. E allora diventa imbarazzante. Perché dopo che hai fatto il film e pensi che nessuno dei due potrà più fare a meno dell’altro, la relazione si azzera. Il regista deve entrare in un’altra storia che non necessariamente ti prevede. E diventa tutto un “come glielo dico adesso?”, “Chi glielo dice?” “Diglielo tu"». Questa intervista è piena di verità. «Mi fido di quel che mi dice, ma forse le mancheranno gli aneddoti. C’è gente che campa raccontandoli per tutta la vita e a volte, come fa Avati che ne racconta di meravigliosi, tutti finti, tutti inventati, tutti a loro modo magici, li ascolti volentieri. Ma l’aneddoto è un genere che mi provoca angoscia». Cosa la rasserena? «Sapere che ho fatto sempre quel che mi andava di fare». Cosa pensa di lei come attore? «Io cerco di entrare in connessione sentimentale con il pubblico. Solo questo». E il mestiere si impara? «Penso che il mestiere si impari ma non si insegni. Come fai a codificare un essere umano che non conosci?»Cosa le ha insegnato il palco? «Che in vigile attesa, si aspetta. Si aspetta sempre».