Avvenire, 22 febbraio 2025
L’avanzata cinese in Asia Centrale
L’influenza della Cina viaggia sulle rotaie, si prepara a conquistare l’Asia Centrale a suon di investimenti per miliardi di dollari, con la Russia e la Turchia, le altre due pretendenti al soft power sulla regione, che al momento – salvo possibili e clamorosi sviluppi legati alla nuova stagione diplomatica – devono rassegnarsi al ruolo di comparse. L’obiettivo finale del Dragone è quello di avvicinarsi, a piccoli passi anche all’Europa. Prima, però, Pechino è ansiosa di mettere una bandierina su un territorio vasto, ricco di materie prime con economie che cresceranno nei prossimi anni e che, per diversi motivi, sta assumendo un peso geopolitico sempre più rilevante. L o scorso 26 dicembre, quando l’Occidente era nel pieno delle festività natalizie, a Tosh-Kutchu, un villaggio al confine fra il Kirghizistan e l’Uzbekistan, è stato inaugurato il cantiere di una ferrovia che collegherà la Cina a questa due repubbliche dell’Asia Centrale. I lavori veri e propri inizieranno solo nel prossimo luglio, ma già dai numeri di capisce che il progetto è destinato a rivoluzionare il commercio della regione, e non solo. La strada ferrata sarà lunga 486 chilometri, la maggior parte, ben 311,75 si troveranno sul territorio kirghiso. Per realizzare il progetto, è stata creata una società mista, di cui il 51% appartiene alla Cina, mentre agli altri due Paesi è riservato il 24,5% ciascuno. Del resto, è soprattutto Pechino che paga. Su circa 4,7 miliardi di dollari, il Dragone ne sborserà direttamente 2,3. Il resto spetterà alla società mista e, anche qui, l’impegno sarà soprattutto cinese, con 1,1 miliardi di dollari e Uzbekistan e Kirghizistan con 570 milioni di dollari a testa.
L a cerimonia di inaugurazione del cantiere è stata tutto sommato un appuntamento discreto, tranne per Bishkek, per la quale era presente Sadyr Japarov. Del resto, per il Paese, la linea rappresenta un’infrastruttura importante, con un totale di 20 stazioni, 42 ponti e 25 tunnel. Il cantiere dovrebbe durare sei anni e, secondo Japarov, frutterà alla repubblica caucasica 200 milioni di dollari all’anno. «Questo progetto – ha affermato il presidente kirghiso – rafforzerà le relazioni interregionali, diversificherà le rotte commerciali, aumenterà la competitività della regione come un hub di trasporto e transito, allineato con gli obiettivi i Paesi dell’Asia Centrale». Gli obiettivi sono anche in linea con quelli della Belt Road Initiative, la Nuova Via della Seta, che consta di sei corridoi più una “Via della Seta Marittima” e che Pechino sta cercando di costruire per ridisegnare il commercio globale, nella speranza, prima o poi di espugnare anche il territorio europeo, che per il momento se ne guarda bene dal fare arrivare sul suo territorio e che l’ex premier Draghi ha tolto dai dossier sul tavolo di Palazzo Chigi per evitare che l’Italia rappresentasse un’eccezione.
C erto, il segmento in Asia Centrale è sicuramente uno dei meno problematici per Pechino, così come lo sono, per altri motivi, quelli che penetrano in territorio russo. Il Dragone ha deciso di puntare proprio su questi Paesi, aumentando gli investimenti, nonostante i cordoni della borsa non siano più larghi come a un tempo. Per Uzbekistan e Kirghizistan si tratta di un’opportunità più unica che rara, perché con questa ferrovia possono smarcarsi dal ruolo di “sorelle minori” del Kazakhstan, vero protagonista economico e politico della regione. I nfatti, la strategia cinese di espansione in Asia Centrale non si è certo dimenticata di Astana, dove, in controtendenza con quello fatto in altri Paesi, gli investimenti sono aumentati. Segno che il Dragone sta puntando sulla regione con determinazione e un disegno preciso. I numeri parlano da soli. A novembre, durante una visita ufficiale del premier kazako, Olzhas Bektenov, sono stati firmati accordi commerciali per 2,3 miliardi di dollari. Negli ultimi tre decenni, l’interscambio è aumentato esponenzialmente, passando da 400 milioni di dollari del 1993 ai 41 miliardi di dollari del 2023. Il saldo commerciale è ovviamente a favore di Pechino, che ha superato persino Mosca che è diventata il primo partner commerciale del colosso centrasiatico. Anche gli investimenti diretti vanno a gonfie vele. Dal 2005 al 2023, la Cina ha versato nelle casse di Astana 25,3 miliardi di dollari. I principali su cui ha puntato Pechino sono le infrastrutture energetiche e l’acquisto di miniere. E, anche qui, Mosca ha solo da storcere il naso. Il gasdotto China-Central Asia, una joint venture fra la kazaka QazaqGaz e la cinese China Trans-Asia Gas Pipeline Company Limited ha un’importanza fondamentale nel diversificare le potenzialità di Astana quanto riguarda sia per l’esportazione, sia il transito dell’oro blu. In 15 anni, a partire dalla sua inaugurazione, ha trasportato 480 miliardi di metri cubi di gas. L’obiettivo è farla arrivare al massimo del suo potenziale, ossia 55 miliardi di metri cubi all’anno. L’ex repubblica sovietica si prepara a diventare un competitor per la Russia e per il Cremlino, che puntava proprio ai mercati cinesi e indiani, questa non è una buona notizia. M osca e Ankara stanno a guardare, con la prima che può solo fare un mea culpa per la situazione. Molti analisti concordano nell’affermare che le relazioni fra Pechino e le Repubbliche dell’Asia Centrale hanno ricevuto una spinta considerevole dall’inizio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022. Astana, Tashkent e Bishkek hanno visto nell’invasione portata avanti da Mosca un allarme concreto per la loro sovranità e si sono affrettate a trovare soluzioni che permettessero loro di implementare un naturale distacco da quella che, nel secolo scorso, era la madre patria e l’unico punto di riferimento possibile. Il conflitto contro Kiev ha creato alla Russia un grosso problema di influenza internazionale, fino all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. L’aver concentrato tutte le risorse migliori su quella che Mosca ha sempre definito «operazione militare speciale», l’ha in ogni caso portata alla perdita di posizioni che rappresentavano asset strategici della sua politica estera, in primis la Siria, ma anche territori dove una volta il suo ascendente era fuori discussione.
I n Asia Centrale rimane a bocca asciutta la Turchia, che pure investiva sul territorio da tempo, potendo contare, soprattutto nel caso dell’Uzbekistan e del Turkmenistan, su affinità religiose e culturali. Ma davanti alla potenza di fuoco di Pechino è destinata a ritirarsi in buon ordine. L’unica cosa su cui in Kazakhstan i cinesi non sono ancora riusciti a mettere le mani, o almeno non in modo rilevante, sono le terre rare. Un problema fino a un certo punto, visto che al momento il Dragone controlla, direttamente o indirettamente del 70% dei giacimenti conosciuti. Ma Astana, a differenza di Paesi africani, come il Congo e il Kenya, non sembra disposta a farsi scippare la sua risorsa più preziosa, nemmeno in cambio di centinaia di milioni di dollari. Gli Stati Uniti e anche la Ue lo hanno capito e per questo stanno portando lunghe e complesse trattative con Astana. Piuttosto che niente, è meglio piuttosto