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 2025  febbraio 22 Sabato calendario

Biografia di Nicolò Martinenghi

Vincere vuol dire toccare il vertice e non sapere più dove andare. Nicolò Martinenghi si è preso l’oro nei 100 rana alle Olimpiadi di Parigi e poi ha viaggiato, ha ballato, ha sfilato sulle passerelle dell’alta moda, è stato a feste piene di gente conosciuta. Si è sentito felice, appagato, vuoto, confuso. Si è guardato allo specchio per capire se fosse ora di smettere di nuotare e ha deciso di ricominciare da capo. Per costruire un viaggio diverso cambia tutto, «perché la magia della realizzazione non finisce nell’attimo in cui la raggiungi, ma nemmeno ti basta».Esiste davvero una sindrome post traumatica dopo il successo olimpico?
«Noi atleti di alto livello siamo macchine perfette. Per riuscire a toccare il meglio c’è una squadra di persone, sempre più specializzate, ad aiutarci e poi scendi da quel podio e nessuno ti può dire che cosa fare. Nemmeno chi ci è passato. Sei costretto a guardarti dentro e sei cresciuto puntando dritto a una meta, sempre quella, sempre avanti: la priorità, la stella cometa. Con la medaglia in mano cerchi il tuo riflesso, scopri chi sei davvero e può pure fare paura».
Lei ha avuto paura?
«Di non capire, sì. Sapevo già che me ne sarei andato via da casa prima di fare le valigie per Parigi e nel concetto di casa c’è tutto. Preso dal nuoto, non ho mai avuto il tempo di farmene una mia. Avevo finito un percorso, anche a livello umano: la quotidianità con la famiglia, lo stesso tecnico per quattordici stagioni, da quando ero ragazzino. Un’unica routine. Se fossi rimasto lì non avrei avuto scosse. Non c’era malanimo: io e il mio ex allenatore Marco Pedoja restiamo amici».
L’ipotesi di chiudere con l’oro le ha attraversato la mente?
«L’ho pensato, sarebbe stato un finale splendido. Poi l’ho detto ad alta voce, “smetto”, e mi è sembrato irrispettoso: per me e per il nuoto che mi ha dato tantissimo e non so lasciare nel momento in cui posso restituire qualcosa in visibilità. Ho avuto pure la prova: due mesi e mezzo di vacanza, torno in Coppa del mondo con tre allenamenti nelle braccia e so di non essere competitivo, lo stesso scatta l’agonismo. Voglio andare avanti anche se continuo a tormentarmi. Sono stanco? Fino a che insegui il sogno ogni passo è pianificato, dopo dubiti di continuo, anche delle tue potenzialità».
Velasco ha detto: «Capisco quando gli atleti non hanno voglia, neanche io ho voglia di allenare ogni giorno, ma superare il muro fa la differenza». Condivide?
«Non è il desiderio di buttare giù un muro che ti fa uscire dal letto, è la consapevolezza che staresti peggio se non trovassi la forza per farlo. Io vivo della mia passione, sono un fortunato e quando non ho stimoli mi chiedo: e poi? Inutile essere ipocrita, far fatica mi dà soddisfazione. Quando ho realizzato che avrei continuato ho messo in conto che per riuscirci servivano novità. Come ha detto Hamilton alla presentazione della Ferrari per il 2025. Parola d’ordine: rigenerarsi».
Per farlo il suo amico Ceccon, gemello olimpico, oro nei 100 dorso, è andato in Australia. L’avventura non la interessa?
«Ho valutato l’ipotesi. Ma non vai dall’altra parte del mondo prima di avere un nido in cui tornare. Io me lo sto costruendo adesso per la prima volta e poi tutta questa esterofilia un po’ mi infastidisce. Sono arrivato al massimo qui, nella provincia italiana, da qui ho battuto australiani, americani, cinesi...».
Che cosa ha di speciale la provincia italiana?
«Tutto quello di cui hai bisogno in pochi km. Grandi livelli di professionalità, dal fisioterapista, allo specialista, qualsiasi figura la trovi e di pregio. Il concetto di comunità immediato, facile. L’erba del vicino non è sempre più verde, poi mi verrà il gusto di un’esperienza altrove. Quando avrò fissato un indirizzo di rientro».
Così, da Varese a Verona. Come è arrivato a Matteo Giunta, marito ed ex allenatore di Pellegrini?
«Ci siamo incontrati a Roma mentre Federica era impegnata con “Ballando con le stelle”. Lui ha gestito un’atleta che ha stravolto la carriera dopo aver vinto molto. Faceva al caso mio».
Un’atleta che era abituata alle rivoluzioni.
«Sì, ma significa che a Giunta piacciono le sfide e questa, con me, lo è perché io ho annullato il Nicolò che c’era prima».
Primo giorno di scuola?
«Non toccavo una vasca da 50 metri dai Giochi. Dopo 400 metri ero bordeaux e volevo fare bella figura. Non capitava da parecchio. Giunta cerca il confronto e io, adesso, ho la maturità per apprezzarlo».
Oggi si allena nella piscina tappezzata di poster di Pellegrini e Ceccon, due che non si trovano troppo simpatici ultimamente. Come si sta lì in mezzo?
«Non mi riguarda, io sto con l’uno e con l’altra e i loro faccioni sul muro sono così tanti che alla fine non li guardi più. Ho ripreso perché sono la persona che volevo diventare, non ho miti da inseguire o compagni da accontentare. Non ho frasi di maniera o sorrisi dovuti. Quando Ceccon tornerà da Brisbane riprenderemo l’amicizia, anche se mi allena Matteo».
Non le chiederà di scegliere?
«Non me lo aspetto, non è da lui. E riderei. Io non credo nemmeno che si ricordi più come è nata la polemica. Personalmente, me l’ero scordata».
Si ritroverà in Nazionale con un’altra generazione. Ne ha voglia?
«Vado per i 26 anni e ne sono passati dieci dalle prime convocazioni. Allora ascoltavo molto, sarebbe bello se qualche ragazzo venisse a chiedermi uno scambio, non sono sicuro che succeda perché mi sembrano più pronti di quanto non lo fossi io, però meno curiosi. Molto meno curiosi».
Si è dato una spiegazione?
«Io resto un curioso per cui credo che lo scoprirò».
Sara Curtis, 18 anni, prima afrodiscendente in azzurro. Pure il nuoto italiano cambia?
«Come è naturale. Lei è una tosta e le serve esserlo anche perché raccoglie l’eredità di uno stile libero al femminile che associamo ancora a Federica. Deve essere brava a seguire la sua progressione, senza lasciarsi distrarre dai giudizi esterni».
Si sta «costruendo un nido», ma la sua fidanzata di lunga data non è venuta a vivere con lei.
«Sarebbe stato molto egoista chiederlo: inizia a trovare il proprio posto nel mondo del lavoro. Stiamo insieme da tanto proprio perché vogliamo darci lo spazio giusto, ognuno deve trovare la propria strada senza sacrificarla in nome di una relazione. La possiamo nutrire anche a distanza».
Sinner ha cambiato la percezione della fama di uno sportivo in Italia?
«Continua a farlo. Non conosco il caso doping e non prendo posizione, ma è straordinario vedere che nonostante quello che è successo lui resta acclamato, tifato, difeso come un valore nazionale. Significa che se lo è meritato e che l’impatto mediatico del campione è diverso. Alla gente piace massacrare e tirare giù dalla torre chi ci sale. Con Jacobs, dopo Tokyo, ci hanno provato, si sono accaniti. Forse evolve anche il pubblico e impara a conoscerci. Tamberi è salito sul palco di Sanremo con Jovanotti, un tempo probabilmente c’è chi avrebbe pensato che non era il suo posto».