Corriere della Sera, 22 febbraio 2025
Solo Donald guadagna con la sua criptovaluta
Ha fatto il suo debutto su piattaforme come Coinbase nei giorni del giuramento di Donald Trump quale 47esimo presidente degli Stati Uniti. Ha iniziato a scambiare poco sotto i 42 dollari e presto ha attratto molti miliardi, da circa un milione di investitori. Quasi subito ha raggiunto i 75 dollari a pezzo e una capitalizzazione di oltre 10 miliardi di dollari. Poi, però, è precipitata. Ora giace sul fondo da un paio di settimane: ieri ha perso un altro 4,6%.
Il suo nome è $Trump. Il suo simbolo è il volto del presidente degli Stati Uniti, il pugno alzato, l’invocazione «Fight, Fight, Fight» del giorno del fallito attentato contro di lui a Bethel Park, Pennsylvania, il 13 luglio scorso. Ad essere precipitata così in basso è la criptovaluta del presidente degli Stati Uniti, emessa in concorrenza al dollaro del quale lui stesso dovrebbe essere il massimo garante istituzionale. Adesso è precipitata a 16,32 per la stessa ragione che rende instabili e spesso fa precipitare tutte le criptovalute: non ha valore intrinseco, non rappresenta alcuna realtà economica sottostante, non è sostenuta da alcun deposito; è solo un segno digitale del valore che chi la compra decide di attribuirgli. E oggi quel valore è quasi il 60% sotto a quello del debutto, un mese fa.
Un andamento normale, per una cripto. Meno normale dev’essere per coloro che hanno creduto in $Trump in quanto legata al nome del presidente e lanciata nei giorni del suo giuramento. Chainalysis, una società newyorkese di analisi delle criptovalute, stima che con quella cripto siano 813.294 i «portafogli» – dunque probabilmente circa 800 mila gli investitori – che hanno subito perdite cumulate da circa 2 miliardi di dollari. Gli investitori avrebbero perso 20 dollari per ogni dollaro guadagnato dagli sviluppatori. Una parte dei guadagni è andata anche a coloro che, più rapidi, hanno monetizzato in dollari veri dopo i primi rialzi dei «Trump dollars».
Ad aver estratto un dividendo è anche l’entità che ha messo sul mercato questa criptovaluta: la Trump Organization (di proprietà del presidente) e i suoi partner. Secondo Chainalysis, a loro sarebbero andati circa 100 milioni di dollari solo in commissioni per il traffico di acquisti e vendite sul $Trump. In sostanza, il presidente avrebbe guadagnato decine di milioni di dollari in un mese solo per aver prestato il suo nome e il suo volto a questa «moneta» messa in circolazione mentre giurava di servire l’interesse di tutti gli americani.
Negli Stati Uniti, tuttavia, queste circostanze non stanno sollevando alcuno scandalo. Diversa invece la sorte di Javier Milei: il presidente argentino ha subito una serie di denunce per aver sostenuto sul social media X (ex Twitter) una cripto, $Libra, che poco dopo è crollata del 90%; ci sarebbero perdite per quasi 300 milioni di dollari per quasi 75 mila conti. Peraltro, $Libra sembra avere gli stessi architetti digitali della criptovaluta di Melania Trump (anch’essa carta straccia digitale a poche settimane dal lancio).
Improbabile però che anche in futuro i casi di truffe sulle cripto che coinvolgono la Casa Bianca diano luogo a indagini. Nessuno può farne. Il Dodd-Frank Act, approvato negli Stati Uniti dopo la crisi del 2008, aveva creato il «Consumer financial protection bureau» (Cfpb) per proteggere le persone comuni dalle frodi finanziarie. Ma, sotto Trump, il Cfpb di fatto non esiste più: è caduto sotto i colpi della «motosega» di Elon Musk, dei suoi tagli di spesa.
Trump ha licenziato il suo direttore Rohit Chopra e ha nominato un «facente funzione», Russell Vought, il quale ha ordinato la chiusura dell’agenzia e chiesto ai dipendenti di non presentarsi più al lavoro (senz’altro in attesa di licenziamento). Il Cfpb era l’ente che cercava di impedire condizioni di usura sulle carte di credito, sugli scoperti bancari o sui mutui alle persone più vulnerabili. Quando al Congresso è stato chiesto a Jay Powell chi eserciterà ora la vigilanza contro le frodi finanziarie ai danni dei consumatori, il presidente della Fed ha risposto: «Nessun altro regolatore federale». Non per cattiva volontà. Solo perché nessuno ha più i poteri per farlo