la Repubblica, 21 febbraio 2025
Jalta e l’eterno fantasma venuto dall’Est.
Il nodo del futuro della Polonia è il cuore del confronto tra gli alleati che cercano un’intesa. Con due possibili governi, uno in esilio a Londra, l’altro installato a Lublino e formato da comunisti protetti dall’Urss Era stato praticamente invisibile, nascosto e silenzioso per i primi giorni della Conferenza, ma a metà settimana spuntò fuori con prepotenza, dominando il vertice di Jalta fino a portarlo al rischio di un fallimento, prima di approdare a un faticoso accordo, talmente travagliato da contenere in sé il germe della futura rottura dell’alleanza. Era il fantasma dell’Est, lo spettro politico orientale che si allungava sull’Europa di mezzo con la sua storia occidentale legata alla sapienza del diritto romano, alla misericordia della religione cattolica, alla tradizione dell’alfabeto latino: e adesso costretta a fare i conti con l’ombra gigantesca della Russia bolscevica che si proiettava fin dove erano giunti i carrarmati sovietici. Mentre la guerra continuava, e a Jalta i tre grandi erano riuniti per costruire i nuovi equilibri di pace nel continente sconvolto dalla marcia nazista, i liberatori sovietici che avanzavano si stavano già trasformando in conquistatori, portando con l’Armata le insegne di un’altra civiltà derivata dalle leggende di Bisanzio, scritta nella sontuosità dei caratteri cirillici, celebrata per un millennio dai canti, dai lumi di candela e dalle sacre icone del culto ortodosso, e ora dalla liturgia comunista di rito bolscevico.
Per dare un futuro orientale a quella parte del continente che nella geografia sta al centro, nel pensiero e nella cultura sta a Ovest, e nel destino finirà a Est. Il nodo era la Polonia, cuore del potenziale scontro tra gli Alleati, già divisi tra loro sui pretendenti al potere a Varsavia. C’era infatti un governo polacco in esilio a Londra, e c’era un governo polacco a Lublino, con esponenti comunisti che avevano trovato rifugio a Mosca, immediatamente riconosciuto dall’Urss così come la Gran Bretagna riconosceva l’esecutivo costruito in terra inglese.
Anche gli Stati Uniti avevano rapporti con gli esuli a Londra, ma Roosevelt nell’affrontare il problema polacco volle premettere che lui veniva da un altro emisfero, e quindi sarebbe stato utile prima di tutto conoscere la posizione dei suoi due partner europei. Stalin e Churchill erano perfettamente coscienti che il tema era decisivo. Il Maresciallo sapeva già fin dove voleva arrivare l’Urss, aveva deciso di capitalizzare l’offensiva militare trasformandola in moneta politica, e progettava una cintura di Stati cuscinetto a protezione della Russia, cominciando proprio dalla Polonia. Churchill aveva capito che l’interesse americano sulla questione polacca era di principio, perché la sostanza politica per Washington si limitava alla pressione psicologica e morale di quei 6 milioni di polacchi che vivevano negli Stati Uniti. D’altra parte l’Inghilterra era entrata in guerra per difendere la Polonia: quella difesa ora toccava a lui, nel duello di Jalta con Stalin. Il sigaro del Primo Ministro rosseggiava senza pause, e nella passione del confronto politico diventava quasi un’arma, un prolungamento incandescente del braccio teso per sottolineare una frase, sollevato per richiamare l’attenzione, aperto per indicare la dimensione del problema. Churchill lo puntava verso i suoi interlocutori, lo innalzava in segno di assenso, lo agitava per segnalare le sue contrarietà. Stalin accettava volentieri le lunghe sigarette americane col filtro che gli proponeva Roosevelt, ma il fumo che saliva nella sala era inconfondibile, col suo profumo di legno e di bosco, e quelle note vaghe di frutta secca o forse di spezie che sarebbero rimaste nella memoria collettiva della Conferenza.
Nel giorno decisivo, Churchill parte dai confini della Polonia, ancora una volta da ridefinire, annunciando che la Gran Bretagna accetta la “linea” tracciata sulle mappe europee nel 1920 da Lord Curzon, per fissare la frontiera tra Polonia, Russia e Lituania, una soluzione riesumata da Stalin, che rivendicava la città di L’vov (Leopoli) per l’Unione Sovietica. «In patria sono stato criticato per questa scelta – confida il primo ministro – ma visto il fardello che la Russia ha portato durante la guerra, non si tratta di una decisione di forza, bensì di diritto: dopodiché, se la potente Russia decidesse di lasciare L’vov a un Paese molto più debole, questo atto magnanimo sarebbe acclamato dal mondo intero. Ma oggi, qui, io sono interessato molto più alla sovranità e all’indipendenza della Polonia che alle sue frontiere. Per noi è una questione d’onore, e non accetteremo mai una soluzione che non sancisca la libertà e l’indipendenza del Paese, senza nessun disegno ostile all’Unione Sovietica. Ma la Polonia dev’essere padrona a casa sua e soprattutto padrona della sua anima».
Una presa di posizione netta, senza sconti e apparentemente senza possibilità di compromessi. Stalin capisce che deve scendere in campo personalmente, e lo fa subito, senza mai guardare in viso Churchill, ma chiudendo la porta alla sua proposta di formare un governo provvisorio polacco con la presenza di tre leader degli “esiliati” a Londra. «Per voi la Polonia è una questione d’onore – spiega il Maresciallo – per noi è d’onore e di sicurezza insieme, perché quel Paese è stato il corridoio per cui sono passati tutti gli attacchi contro la Russia. L’Urss vuole una Polonia forte, indipendente e democratica, che concorra alla sua protezione. Quanto alla linea di frontiera, sono Lord Curzon e Clemenceau che l’hanno tracciata alla fine della prima guerra mondiale, senza coinvolgere la Russia. Oggi io non posso certo essere meno russo di Curzon e Clemenceau, arretrando rispetto a quella linea e cedendo L’vov: se lo facessi, non potrei nemmeno tornare a Mosca e affrontare il mio popolo». Ma Stalin boccia anche la proposta avanzata da Churchill di un esecutivo provvisorio a Varsavia con esponenti dei due governi: «L’idea di mettere in piedi qui a Jalta un governo polacco è un lapsus. Tutti mi chiamano dittatore, ma in realtà ho abbastanza sentimenti democratici per respingere l’ipotesi di creare un governo polacco senza consultare i polacchi». No su tutta la linea. La risposta finale di Churchill è gelida: «Noi non accetteremo a nessun prezzo di riconoscere il gruppo di Lublino come governo provvisorio». Stalin prova a ribattere, ma Roosevelt lo ferma per l’ora tarda, rinviando il problema al giorno dopo per evitare di irrigidire le posizioni in un muro contro muro. In un clima molto teso, il vertice si scioglie senza cena in comune e senza brindisi, e ogni leader si chiude con i suoi uomini nella propria residenza. Roosevelt cena con la figlia e i collaboratori più stretti, continuando a pensare come recuperare il filo di un’intesa che sembra smarrito.
Prima di ritirarsi per la notte il Presidente chiede ad Arthur Prettyman, il cameriere-factotum, di spingere la sua sedia a rotelle fino alla stanza del consigliere più fidato, Harry Hopkins, e insieme preparano una lettera urgente per Stalin. «Sono estremamente preoccupato che le nostre posizioni sulla Polonia non si accordino. Il fatto che voi riconosciate un governo, e noi e gli inglesi un altro, ci mette in una situazione fastidiosa davanti al mondo che penserà a una rottura tra noi. C’è sicuramente un modo per conciliare i nostri diversi punti di vista». E Roosevelt suggerisce di invitare a Jalta esponenti polacchi dei due diversi schieramenti per studiare una soluzione che porti a un governo provvisorio. Con un corriere speciale, prova della fretta e dell’ansia, la lettera parte immediatamente da palazzo Livadia per raggiungere il Maresciallo, attraversando la notte fredda di Jalta, segnata dal dubbio di un fallimento.
Nei loro cablogrammi criptati prima di venire a Jalta i tre grandi chiamavano la Conferenza con il nome in codice di “Argonaut”. Lo aveva proposto Churchill, assegnando al vertice in Crimea l’ambizione titanica della missione leggendaria nella Colchide di Giasone e degli eroi Argonauti, alla ricerca mitologica del vello d’oro. Dopo quasi sei anni di guerra, con la minaccia nazista di cancellare la civiltà europea, in quel momento il tesoro da disseppellire è la pace, il manto dorato è la rete universale tesa sui popoli da un’organizzazione che regoli i contrasti garantendo una coesistenza tra regimi diversi, all’insegna della libertà riconquistata. Ma proprio perché la posta in palio è altissima, un fallimento a Jalta appannerebbe la vittoria militare senza insediare una pace duratura, e il contraccolpo sulle popolazioni stremate dal conflitto sarebbe molto pesante. Bisogna fare di tutto perché Argo, la nave di Giasone, non affondi qui, nel Mar Nero, naufragando dopo secoli nel suo sogno irrealizzato. Il più preoccupato sembra Roosevelt. Non per la Polonia in sé, ma perché l’ostacolo polacco rischia di far crollare tutta la costruzione ideale della Grande Alleanza come ispiratrice e garante della pace universale. «Sono cinque secoli che la questione polacca dà il mal di testa al mondo», dice il Presidente sconsolato. «Dobbiamo sforzarci per cancellare questa emicrania dell’umanità», aggiunge Churchill. E Stalin prova ad aggirare il blocco, con cinque mosse: prima annuncia il pieno accordo dell’Urss sulla proposta americana per il varo di un’organizzazione internazionale di sicurezza, poi abbandona la richiesta di dare alle repubbliche sovietiche 16 voti, scendendo a due, per Ucraina e Bielorussia. Quindi va a trovare Roosevelt, alla presenza soltanto di Molotov e Harriman: e qui si impegna a dichiarare guerra al Giappone 90 giorni dopo la sconfitta della Germania e chiede come compenso le isole Curili, una parte dell’isola Sakhalin, il controllo delle linee ferroviarie della Manciuria, facendo anche una confessione al presidente americano: «i comunisti cinesi sono comunisti di margarina». Infine accetta che la Francia abbia una zona d’occupazione in Germania ed entri nel comitato di controllo. È chiaro che Stalin vuole scambiare i suoi sì alle Nazioni Unite, all’attacco al Giappone, alla zona francese, con il sì americano alla questione che più gli sta a cuore: il governo della Polonia formato dal gruppo di Lublino. Nella sessione plenaria Roosevelt saluta «il passo avanti della Russia, che sarà il benvenuto per tutti i popoli della terra». «Quel passo avanti è enorme», aggiunge Churchill esprimendo tutta la sua riconoscenza e la sua simpatia per il governo sovietico: «Il mio cuore batte a fianco della grande Russia, che sanguina profondamente e schiaccia il tiranno sulla sua strada».
A questo punto la via verso l’autonomia della Polonia si fa stretta. Molotov propone di fissare a est la frontiera polacca sulla linea Curzon e il confine occidentale lungo il fiume Oder e il Neisse, annettendo alla Polonia nuovi territori a nord e a ovest, e di “completare” il governo provvisorio con esponenti democratici dell’emigrazione, per poi arrivare alle elezioni generali. Dunque per la Russia il nucleo fondamentale del governo dev’essere il gruppo di Lublino, incentrato sul partito dei lavoratori collegato con Mosca, mentre dal gruppo di Londra possono venire solo “completamenti”. Churchill frena: «Non è consigliabile che l’oca polacca venga rimpinzata eccessivamente con porzioni tedesche fino a gonfiarsi e morire. E il governo di Lublino non è riconosciuto dalla stragrande maggioranza del popolo, e per questo noi non lo riconosceremo mai, nemmeno mascherato. Se lo sostenessimo, susciteremmo le proteste di tutto il mondo». Poi, uno spiraglio: «Certo, tutte le difficoltà sarebbero rimosse se in Polonia si tenessero libere elezioni. Noi saluteremmo qualsiasi governo polacco nato da quel voto». Roosevelt si volta verso Stalin:»Quando sarà possibile tenere libere elezioni in Polonia?» «Entro un mese», è la risposta. Si arriva così, con molta fatica, ad un testo comune dall’equilibrio delicatissimo: «L’attuale governo provvisorio polacco dovrà essere riorganizzato su una base democratica più ampia che comprenda i capi democratici della Polonia in esilio, e appena possibile procederà a libere elezioni con suffragio universale e scrutinio segreto».
«Ho ottenuto tutto quel che volevo – commenta Roosevelt coi suoi – senza nemmeno pagarlo troppo caro». E Churchill, nella cena d’onore nella residenza russa, brinda all’onore di Stalin «sperando che le grandi vittorie dell’Armata Rossa lo rendano più mite e amichevole, e che la Russia gloriosa in guerra sia felice e sorridente in pace». Roosevelt alza il calice per il mondo nuovo, che dovrà «dare garanzia di sicurezza e benessere a ogni uomo, donna e bambino». Stalin celebra Churchill: «Conosco nella storia pochi esempi in cui il coraggio di un solo uomo ha avuto tanta importanza per l’avvenire del mondo intero». È a questo punto, nell’abbondanza di vodka, che il primo ministro inglese si alza come sfiorato da un presagio, e avverte: «Dalla cima di una collina, oggi vediamo i trionfi delle possibilità future. Siamo i capi chiamati a guidare i popoli fuori dalle foreste oscure verso le grandi pianure soleggiate. Teniamo questo meraviglioso potere nel cavo delle nostre mani, perché sarebbe una tragedia che la storia non ci perdonerebbe se dovesse sfuggirci per inerzia o per incuria». Ventitré giorni dopo Jalta quella visione svanirà, e le mani che pensavano di governare il futuro del mondo si riveleranno vuote di sogni.