Il Messaggero, 21 febbraio 2025
Anche i repubblicani ora sono preoccupati da Trump
Appena cinque giorni fa, alla Conferenza di Monaco, hanno stretto la mano calorosamente a Volodymyr Zelensky, riconfermandogli il loro sostegno. Tornati a Washington, i senatori della delegazione repubblicana hanno ricevuto una doccia fredda, quando il loro presidente ha invece lanciato una serie di attacchi e accuse sconcertanti contro l’uomo che avevano appena salutato come «un novello Churchill». Per il senatore Thom Tillis della Carolina del nord, il sostegno di Donald Trump per Putin e i suoi attacchi contro l’ucraino sono stati troppo: «Putin è un dittatore assassino e qualsiasi risoluzione in Ucraina che lo faccia sentire vincitore o anche solo in pareggio è una cattiva idea» ha reagito. Per la prima volta da quando Trump è entrato alla Casa Bianca, le critiche sono state abbastanza numerose, e come Tillis, i colleghi John Kennedy della Louisiana e Roger Wicker del Mississippi non hanno avuto peli sulla lingua: «Putin ha un cuore nero e ha la stessa passione per il sangue che aveva Stalin. È un uomo malvagio» ha detto Kennedy, mentre Wicker ricordava che Zelensky è stato «democraticamente eletto» e ha «validamente difeso la sua Nazione per tre anni». LA FRONDACritiche altrettanto decise sono venute anche da alcuni deputati repubblicani, e da opinionisti conservatori normalmente schierati con il presidente, come ad esempio Britt Hume della Fox News o David French, del New York Times, che hanno definito le parole di Trump «musica per le orecchie di Putin», e «il sogno di un propagandista russo». Le prese di posizione nel campo repubblicano fanno notizia non tanto per la loro forza ma semplicemente perché sono avvenute. Finora le critiche sono giunte solo dai democratici, mentre il partito repubblicano ha evitato di ostacolare il presidente, e anche davanti allo sconvolgimento di decenni di alleanza atlantica molti altri leader politici della Camera e del Senato hanno taciuto o espresso critiche timide o caute, come il capo della maggioranza repubblicana al Senato, John Thune, che si è limitato a dire «il presidente parla sé stesso». Mitch McConnell, decano del partito, talvolta critico di Trump, ha scelto anche lui di tacere, e ha invece annunciato il suo ritiro dalla politica. I DATIMa il fatto che vari senatori, anche di Stati rossi, abbiano espresso disapprovazione, rispecchia il sentimento degli americani. Perché, se è vero che un 30% chiede che si spendano meno soldi per sostenere la guerra in Ucraina, un 45% pensa che si debba continuare a investirli, se non addirittura aumentare i fondi. E quanto a scegliere chi piace di più al pubblico a stelle e strisce, il 65% degli americani considera l’Ucraina un Paese amico o alleato degli Stati Uniti, contro solo l’11% che lo pensa della Russia. Dati che i politici conoscono, li conosce di certo anche l’ex vicepresidente Mike Pence, dell’Indiana, Stato dove è forte la presenza di elettori di origine ucraina e polacca (i polacchi sono una forza negli Usa e sempre e costantemente anti-russi) che ha scritto un ammonimento al suo ex presidente: «Se l’Ucraina cade, sarà solo questione di tempo prima che la Russia invada un alleato della Nato che le nostre truppe dovranno difendere». L’opinione pubblica americana è abituata alle uscite estemporanee di Trump, ma bisogna riconoscere che nell’ultima settimana il presidente ha superato sé stesso, tant’è che la sua popolarità è scesa: era al 53% appena entrato alla Casa Bianca e ora galleggia fra il 44 e il 46%. E non è solo l’Ucraina a sgomentare: dopo la sua entrata a gamba tesa per bloccare il piano di congestion pricing di New York (che ha introdotto un pedaggio per entrare in auto a Manhattan sotto la 60ª strada), ha celebrato la decisione sui social con la frase “Long live the king!”, lunga vita al re. La governatrice Kathy Hochul, in genere attenta a non scontrarsi con lui, ha annunciato un ricorso legale, e ha affermato battagliera: «New York non è sottoposta a un monarca da oltre 250 anni, e non inizieremo ora».