La Stampa, 21 febbraio 2025
Biografia di Lidia Ravera
Il primo desiderio della scrittrice femminista più letta d’Italia è stato quello di essere un uomo. «Del resto, chi non vorrebbe essere un privilegiato e avere una vita più facile e meno dolorosa?», dice Lidia Ravera, nel soggiorno della sua casa affacciata sul Lungotevere. In una delle librerie c’è una macchina da scrivere rossa, la Olivetti Valentine con cui, nel 1976, è iniziata la sua carriera di scrittrice. Trentasei libri e quarantanove anni dopo, Ravera ha deciso di raccontare quell’ancestrale desiderio sin dal titolo del suo nuovo memoir (Volevo essere un uomo appunto, pubblicato da Einaudi): «Mia madre mi chiamava “Ok”, dalle iniziali di Ogino Knaus, il metodo che usava per non restare incinta. Mi disse: “Sei nata lo stesso, potevi almeno essere un maschietto, visto che la femmina ce l’avevamo già"».Come lo ha elaborato?«Sono cresciuta pensando di aver deluso chi mi aveva messo al mondo. Per quella frase conservo ancora oggi una specie di stupore: ma davvero erano così inconsapevoli i genitori di una volta?».Nel libro racconta che amava i soldatini ma non poteva dirlo.«Mi piaceva inventare storie, avrei fatto interagire i soldatini con le bambole».Da lì nacque il desiderio di diventare scrittrice?«Guarda due bambini: tirano calci a un pallone. Guarda due bambine: giocano alla vita. È l’apprendistato migliore per diventare scrittrici».Suo padre le diceva: non dobbiamo essere ricchi o nobili, ma «distinti».«Dovevamo essere diversi dagli altri che erano, va da sé, inferiori: il contrario dell’educazione all’empatia, alla solidarietà. Meno male che poi c’è stato il ’68!».Che giudizio ne dà oggi?«È stato un momento di maschilismo fiammeggiante, ma senza il ’68 non ci sarebbe stato il femminismo: per la prima volta noi ragazze siamo uscite di casa, ci siamo mescolate coi ragazzi, anche se spesso riproducevano i difetti dei loro padri. Del resto, è molto più facile fucilare l’avversario che farlo cambiare interiormente».Andò via di casa a 19 anni.«Mi sono iscritta a Lingue orientali dicendo ai miei che le parole del futuro sarebbero state russe e cinesi. In realtà, le avevo scelte perché non si potevano studiare nella mia città, Torino. Così sono partita per Venezia, dove scrivevo come una indemoniata, quindi mi sono trasferita a Milano dal mio fidanzato di allora».Eravate una coppia aperta.«Era uno dei tanti esperimenti per cambiare la qualità della vita di relazione. E poi: se i maschi erano promiscui, perché noi no? Provai così a praticare la promiscuità, con risultati catastrofici. Dei tre compagni con cui uscivo senza mentire, due si allearono contro di me, il terzo tornò dalla moglie».A Milano scriveva per Panorama: il suo direttore, Lamberto Sechi, la chiamava «Strascina Frattaglie».«Arrivavo in redazione con un lungo mantello nero sopra una microgonna di velluto: da lì il soprannome. Mi chiamava anche “Cotta Continua”, per via di tutti quei liberi amori…».Militò anche nell’organizzazione di Adriano Sofri. Maschilisti anche lì?«Sì, erano abbastanza tremendi. Ma a quel punto il femminismo stava diventando una forza, cercavamo di cambiarli».Ci riuscivate?«No. Erano più forti loro. Però Lotta Continua naufragò su due scogli: uno era la lotta armata, l’altro il femminismo».Da Milano si trasferì a Roma, senza un lavoro. Il primo a ospitarla fu lo psichiatra Marco Lombardo Radice.«C’era una rete di compagni che attraversava l’Italia: ospitare era un obbligo politico. Arrivai per caso a casa di Marco, non lo conoscevo. Mi aprì un gigante spettinato. Era reticente su sé stesso e curioso degli altri. Un genio».Con lui scrisse il suo primo libro, Porci con le ali. Fu un successo inaspettato: vendeste 3 milioni di copie in 40 anni.«Marco trattò l’intera vicenda con altezzoso menefreghismo: partì verso un paese in guerra, rispolverando la sua laurea in medicina. Io continuai a scrivere, anche se quella popolarità inaspettata mi rese tutto un po’ più difficile».Goffredo Parise stroncò il suo secondo romanzo, Ammazzare il tempo.«Come sparare a un cardellino con un bazooka. Quando lo lessi, prima piansi e poi mi chiesi perché un uomo così intelligente aveva scritto una cosa così stupida. Una ragazza che parlava di sesso andava comunque bastonata?».Oggi ha fatto pace con la critica?«Faccio finta di sì. Adesso non si stronca più nessuno. Però possono cancellarti».Da quarant’anni racconta le donne della sua generazione: quanto sono cambiate?«Tanto, anche quello che non lo sanno sono cambiate. Gli uomini sono mutati molto meno – com’è logico, dati i loro privilegi -. Non tutti sanno accettare il cambiamento. Se ne spaventano e i più deboli tirano fuori il coltello».Come sta oggi il femminismo?«Negli anni ’80 – quelli del “backlash” (il “riflusso” dopo le battaglie dei decenni precedenti ndr) – era diventato un sostantivo sgradito che la maggior parte delle donne si scrollava di dosso. Adesso è un titolo di merito, parte del corredo necessario per presentarsi in società. Però c’è femminismo e femminismo».Cioè?«Non credo nel femminismo dell’uguaglianza, credo in quello della differenza. Non mi interessa avere l’opportunità di diventare una brutta copia degli uomini, ma essere considerata quanto gli uomini nella mia diversità. E su questo c’è ancora parecchio da fare».Ha scritto: «Se nasci femmina devi essere guardata. Essere bella è la condizione insufficiente ma necessaria per essere popolare».«Il femminismo dell’uguaglianza di oggi, quello delle belle carriere presentate come rarità entusiasmanti, non mette in discussione l’obbligo, solo femminile, di corrispondere al modello estetico del momento. Oggi continuiamo a venire giudicate in base alla bellezza e all’età. Dobbiamo avere 25 anni tutta la vita».Accade di più o di meno di ieri?«Uguale, ma oggi a essere vecchie siamo in tante. In Italia gli over 65 sono 14 milioni, in maggioranza donne. E l’aspettativa di vita cresce con implacabile regolarità. Dobbiamo passare 70 anni a vergognarci di non averne più 25?».Nel libro si chiede se il femminismo sia diventato popolare e quindi commerciale o se sia diventato commerciale e quindi popolare.«È nato prima l’uovo o la gallina? Probabilmente la gallina. Cioè l’anima del mondo mercato in cui viviamo: il commercio».Non è cambiato nulla?«Meno di quello che appare. Si è steso su tutto il velo pietoso del linguaggio politicamente corretto: invece di affrontare problemi e conflitti, li si nasconde e li si nega sotto un tot di parole concordate. Vogliamo parlare del trionfo dell’ipocrisia?».