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 2025  febbraio 21 Venerdì calendario

Biografia di Steve McCurry, raccontata da lui stesso

«L’amministrazione Trump è un guaio». Steve McCurry, 74 anni, di Filadelfia, è a Biella per la sua mostra fotografica Uplands&Icons nei palazzi Gromo Losa e Ferrero, ma con lo smartphone oltre a immortalare chiunque incontri controlla le ultime mosse del presidente americano: «Sono preoccupato per l’Ucraina, per l’ambiente, per i diritti delle minoranze e per lo strapotere dei super ricchi – spiega –. Le uscite di Trump sono ridicole. Bisognerebbe essere più gentili e compassionevoli. L’idea di prendere il controllo di Gaza è folle, come le tensioni col Canada o su Panama».La sua mostra è dedicata alle terre alte di mezzo mondo, oltre che ai suoi scatti più iconici. Lei è un viaggiatore che non si è mai stancato?«Sì, quando viaggio mi sveglio alle 4, sono pieno di energia, visito nuovi luoghi e torno dove sono già stato. L’Italia è uno dei posti che preferisco».Lei ha fotografato soprattutto persone, forse cerca l’essenza dell’umanità?«Sono sempre stato affascinato dai comportamenti, da come ci relazioniamo agli altri, da se rispettiamo o no l’ambiente e gli animali. La vita è una storia fatta da esseri umani e io la voglio raccontare. Condividendo le immagini dell’umanità dei quattro angoli del pianeta mi sembra di fare il bene comune».L’India è la grande passione?«A 19 anni avevo già passato un anno in Europa, ero stato in Africa e Sudamerica, ma volevo iniziare la carriera da fotografo in Asia, un continente culturalmente ricchissimo. Ci sono rimasto due anni senza tornare a casa. L’India, l’Himalaya, la Birmania, la Thailandia sono una scoperta continua. A 12 anni mi colpirono le foto dei monsoni su una rivista e così sono andato in India più volte per farle io. E ci tornerò presto».È lì che ha imparato la devozione citata nel suo libro Devotion (Mondadori Electa)?«Ero in Nepal, dove ho visitato alcuni monasteri. La devozione, come la compassione, è un tentativo di comunicare con gli altri. Penso a esperienze molto concrete come il personale medico che si dedica ai pazienti, per esempio in Ucraina. Mi piace ritrarre le persone che si adoperano per gli altri. La devozione non è per forza religiosa o spirituale, riguarda magari i parenti, i vicini, chi amiamo».È vero che il suo esempio di devozione è Gino Strada?«Sì, ho visitato gli ospedali di Emergency dove i medici sono persone semplici e concrete, non come quelli dei grandi centri privati. Lavorare in Afghanistan, in Yemen, in Ucraina può essere stressante, ma riporta a un concetto di servizio. Ogni giorno nel mondo c’è chi salva migliaia di vite, per questo trovo sbagliato tagliare gli aiuti sanitari americani».Conosce Occidente e Oriente, Nord e Sud, religioni, regimi, ha fotografato i principali conflitti, cosa manca al mondo per non fare la guerra?«Tutto dipende dall’avidità e dalla mancanza di rispetto. Ci sono persone che vogliono rubare la terra ad altre o non tollerano la religione altrui. Penso agli indiani d’America, che da alcuni non vengono ritenuti esseri umani, o alla schiavitù. C’è chi considera gli altri come inferiori, mentre io li vedo uguali. Ci vuole compassione. La maturità è aiutare gli altri».Lei ha detto che vuole fare foto dove pensa di essere d’aiuto, oggi dove andrebbe?«Sono stato più volte in Ucraina, perché è un libro di Storia ancora aperto. Vedo attenzione sul Medio Oriente, ma non ci si può dimenticare di Kiev e dei villaggi alla frontiera con la Russia abbandonati che spezzano il cuore. Nei miei viaggi ho parlato con centinaia di ucraini e non supportarli è egoista e di veduta corta».E la Palestina?«Ci ho passato tanto tempo da giovane e soffro per la sua situazione. In Ucraina per un fotografo è più facile muoversi. Gaza è ostica e rischiosa: mia moglie non mi vorrebbe là».Lei crede nella fotografia come linguaggio universale?«Sì, è una lingua adatta a tutti. Mi affascina poter rappresentare un villaggio in Cina in modo che chiunque lo conosca».Lei pensa che, nonostante tutto, il mondo progredisca?«Se si facesse questa domanda a una balena o a un elefante forse sì, progrediamo lentamente. Riguardo a noi è difficile essere ottimisti, anche se ci stiamo provando tutti. Servirebbero tanti nuovi Gino Strada».In cosa si sente americano?«Si cresce in una certa cultura e in qualche modo ci si ritrova, ma è anche vero che viaggiando si possono abbracciare nuove prospettive e valori. Per esempio per me non è così importante tenere una pistola sotto al cuscino. Gli americani dovrebbero viaggiare di più, perché allarga la mente».Ricorda la sua prima foto?«Sì, era il mio cane. Da piccolo giocavo a fare scatti ad amici e parenti. Stoccolma invece è stato il primo viaggio con una macchina professionale».E la prima foto che le ha fatto capire di essere un grande fotografo?«Non l’ho mai pensato. Con grandi sforzi però si arriva ad un punto in cui si riesce ad imprimere nella pellicola quello che si vede e la stampa restituisce esattamente quello che la mente ha immaginato al momento dello scatto. Ma ci vogliono anni di pratica».Qual è il trucco per scattare una grande foto?«Parlerei di tecnica se mai, l’unico modo di diventare un fotografo è la pratica. Questo è il segreto del successo, ma non sempre le persone ci mettono la volontà necessaria. Una buona foto ha ritmo, armonia, restituisce quello che ci ha colpito al momento dello scatto, dà la stessa emozione a noi e a gli altri che la guardano. Non deve necessariamente essere bella, ma raccontare una storia».C’è una foto che non è riuscito a fare?«Ci sono tanti posti in cui avrei voluto scattare, ma non ho rimorsi. Sono grato invece per tutte le foto che ho fatto. La bellezza della fotografia sta anche nella sua immediatezza, nello scoprire qualcosa, innamorarsene e poi basta fino a quando non la riguardi».Chi è il suo fotografo preferito?«Oltre al re Cartier-Bresson, ce ne sono tanti e sempre più numerosi, perché le macchine fotografiche sono diventate più accessibili. Lui ha passato anni documentando il mondo così com’era in una narrazione unica che è poesia. La sua grande lezione è che non bisogna preoccuparsi di essere più o meno bravi, ma di raccontare una storia con grande onestà».Che fine faranno le migliaia di foto contenute nei nostri smartphone e social? Le immagini così perdono importanza?«È una fortuna vivere circondati da foto, anche se più casual. L’importante è stampare le più importanti. Io lo faccio ogni giorno e tengo un registro dei miei scatti. Non mi fido della memoria digitale. Ho stampato 500 foto per mia figlia e per mia moglie, così quando morirò avranno almeno quelle per le prossime mostre».L’AI le ruberà il mestiere?«Le persone vogliono sapere chi sta dietro una foto o un articolo. L’AI è uno strumento rivoluzionario, ma per la documentazione il professionista resta fondamentale. Per stabilire se una foto è vera rimane cruciale».