la Repubblica, 21 febbraio 2025
Gabriele Salvatores si unisce all’appello di Piano per il cinema
Gabriele Salvatores si unisce all’appello degli autori – rilanciato suRepubblica ieri da Renzo Piano – al presidente della Regione Lazio Rocca affinché le sale chiuse possano non diventare mai, nel tempo, puro commercio, ma restino al servizio della comunità come centri di cultura.Lei è il regista italiano che più di tutti ha provato a leggere il futuro.«Il primo pensiero è che le sale devono restare tali. Non si può immaginare un Paese, non solo l’Italia, senza i luoghi in cui è nato il cinema. I film li possiamo vedere in tv, sull’iPad, sul telefonino. Ma solo la sala, come diceva Jacques Derrida, ha il potere di evocare i fantasmi che abbiamo dentro e proiettarli su una parete, come nel mito della caverna di Platone. E farceli vedere, farceli riconoscere, farci dialogare con loro. Ed è l’unico luogo che potrà salvarci dal continuo richiamo alla presenza, all’interattività. È bello abbandonarsi a un sogno, senza interruzioni, che un’altra persona ha pensato per te».Le associazioni di autori temono che il vincolo di destinazione a scadenza possa consentire speculazioni a lungo termine. Perciò chiedono che le sale chiuse si trasformino in centri di aggregazione culturale.«Certo, e vale anche per i teatri, per le sale da concerto, come diceva Renzo Piano, condividere con altre persone un evento culturale è fondamentale. Altrimenti ci trasformiamo solo in clienti, in consumatori. Purtroppo, la tendenza di questi ultimi anni è quella di isolarci, di lasciarci soli nelle nostre case, davanti al computer; uno specchio che ci parla solo di noi stessi grazie agli algoritmi. Se la sala chiude, almeno lo spazio resti per attività culturali che uniscono le persone».C’è il rischio di un cambiamento del paesaggio delle nostre città.«Sì, un peccato anche architettonico. A Milano è successo questo, senza bisogno di leggi o altro. Corso Vittorio Emanuele, la via attaccata al Duomo, quando ero ragazzo e fino ai primi anni Ottanta era piena di cinema: un po’ come a Broadway, lì guardavi titoli e cartelloni e sceglievi. Ora non ce n’è più nessuno, anche l’Odeon diventerà un centro commerciale. Eppure molte sale funzionano. A Milano l’Anteo è sempre pieno, ha un bar e una libreria di cinema. Questo facilita la vicinanza delle persone, lo scambio di idee, di emozioni. Stiamo andando sempre di più verso la logica del profitto. È un discorso da anni 70, ma alcune cose restano vere: la cultura rende indipendenti. E non sempre i politici vogliono un pensiero indipendente, non allineato. È una battaglia da fare su tanti livelli, non solo quello economico».Le sale dei suoi ricordi?«Due, milanesi. Al Manzoni i miei mi portarono a vedere C’era una volta il Westin 70mm. E poi l’Orfeo, lì ho vistoLawrence d’Arabia e mi sono innamorato di questo mio lavoro di regista. Invece la reazione forte, ma negativa, fu con mia nonna alloGnomo, vidiMarcellino pane e vino e rimasi terrorizzato. Avevo paura a entrare in casa da solo, mi chiedevo: “E se mi appare Gesù?”».E da autore?«Il padre di un ragazzo autistico mi ha detto che il figlio ha insistito per vedere Napoli, New York, l’ha portato ed è stato il suo primo film visto per intero. E in una sala un anziano, che ha pianto tanto: “Ho ricordato mio nonno, mi ha fatto bene”».Cosa si scopre portando il proprio film in giro per l’Italia?«Che c’è molto amore per il cinema. Non è vero che le nuove generazioni non ci vanno. Io non sono pessimista sul pubblico, ma sulle scelte politiche ed economiche che vengono fatte».È intervenuto anche il direttore della Mostra di Venezia, Alberto Barbera. I festival aiutano le sale?«Certo, perché intorno a un festival si crea attenzione, quel luccichio che spinge a parlare del film e portare il pubblico a vederlo in sala. Il cinema deve piacere al pubblico. È popolare per definizione, non populista».Chi deve aiutare le sale?«Lo Stato. Ma la sensazione che ho, in Italia, è che ci sia quasi timore del cinema, come se fosse qualcosa di destabilizzante per la politica. È un errore. Il bello della cultura è proprio che mette dubbi. L’intelligenza artificiale potrà forse fare tutto, ma non avere dubbi ed emozioni».È il momento di mobilitarsi?«Si può e deve fare. Il problema è che noi del cinema, in Italia, fatichiamo a fare sistema. Negli Usa, quando c’è stato lo sciopero, nessuno ha ceduto. Se noi riuscissimo a fare gruppo, sarebbe un passo importante».