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 2025  febbraio 21 Venerdì calendario

Nello, il fratello di Pino Daniele

Nello, qual è il primo ricordo di suo fratello Pino Daniele?
«Quando, bambini, giocavamo nel Monastero di Santa Chiara, vicino a casa, a Napoli. Io ero il più piccolo di noi sei fratelli, lo scugniziello, Pino aveva dieci anni più di me. Io giocavo a pallone e lui si sedeva sui muretti e componeva le prime cose. Poesie, che poi diventavano canzoni».
È vero che studiava ancora ragioneria quando, seduto su quei muretti, scrisse «Napul’è» e «Terra mia»?
«Ho ancora gli spartiti. All’inizio, andava alle Feste dell’Unità e suonava brani che non aveva ancora inciso. Diceva: questa canzone non so quando uscirà, ve la faccio sentire. Si era fatto comprare dalle zie la prima chitarra a nove anni. Papà lavorava al porto, dove attraccavano le portaerei, e lo portava con lui a via Medina quando accompagnava gli americani a sentire il blues».
A casa, qualcuno suonava?
«Mio fratello Salvatore suonava i campanelli delle porte e scappava. E mio fratello Carmine dietro. Solo Pino aveva questo amore. Imparò la chitarra da solo, poi si mise a cercare un gruppo. Trovò James Senese, gli chiese se serviva un chitarrista, James rispose: no, cerco un bassista. E lui: allora, suono il basso. Accompagnò in tour Bobby Solo che una volta, in Svizzera, se lo sentì suonare alle spalle così bene che gli uscì un “qua ci sta B. B. King”».
Il 19 marzo, Pino avrebbe compiuto 70 anni, lo ricorderete con un concerto a Napoli a Piazza del Gesù, proprio accanto a Santa Chiara.
«Da quando è mancato, abbiamo sempre fatto il memorial “Je sto vicino a te Forever” al chiuso, ma ora, per il decennale della morte, abbiamo voluto un concerto tributo, ripreso dalla Rai, aperto a tutti e pieno di amici, tra gli altri: Mario Biondi, Tony Cercola, Eugenio Finardi, Tullio De Piscopo, Enzo Gragnaniello, i Negrita, Raiz, Michele Zarrillo, i 99 Posse. Nello spot, usiamo una frase di Pino, “puorteme a casa mia”, perché è un ritorno alle radici. Proprio a Piazza del Gesù passava il bus 140, lo prendevamo per andare al mare a Posillipo. Pino lo mise in Canto do mar».
In quella casa dove si suonavano al massimo i campanelli, come era stato accolto il desiderio di Pino di diventare musicista?
«Ricordo quando portò il primo singolo, Che calore. Papà lo sfotteva: ma dove vai con ’sto disco? Nessuno ci credeva. Anche perché nessuno aveva mai sentito cantare il dialetto napoletano su una musica americana».
Lo scrittore Francesco Piccolo ha scritto che, per lui e i suoi coetanei liceali, fu un salto gigantesco, perché nelle canzoni dei loro padri entravano blues e rock.
«Il successo vero arrivò col terzo album, Nero a metà. Il quarto, Vai mo’, fu la bomba: c’erano dentro Yes I know my way, Che te ne fotte, Viento ’e terra, Sulo pe’ parlà. Stavamo ancora in via Atri e, grazie a quel disco, Pino comprò una casa a mamma e papà. Era il 1981, al concerto a Piazza del Plebiscito vennero duecentomila persone. Io avevo 16 anni, stavo coi pantaloni corti, accanto a Tullio De Piscopo. La Rai dovette interrompere la diretta per motivi di ordine pubblico. Musicalmente, Pino ha sempre seguito il suo istinto, amava le contaminazioni, si rifiutava di cantare sempre le canzoni che gli chiedevano tutti o di farle sempre allo stesso modo. E non gli piaceva la sua voce, diceva: non sono cantante, sono chitarrista e poi scrivo le canzoni. Nel 1999 fu il primo a fare un disco trap, Come un gelato all’equatore. Tutti dicevano: è uscito pazzo. Ma oggi tutti fanno trap. Tanti grandi lo amavano: di Eric Clapton, Steve Gadd, Pat Metheny, era diventato amico».
Anche lei è musicista, non ha temuto il confronto?
«Io volevo fare il calciatore. Ho imparato a suonare la chitarra a 27 anni, solo perché me la regalò Pino, una Eko. Lo aiutavo in tour e nelle pause strimpellavo. Insomma, stavamo a Formia nello studio dove Pino incideva e, al piano di sopra, ospitava gli artisti stranieri, come Richie Havens e Gato Barbieri. Io avevo scritto una canzone, Pullecenella. Il road manager di Pino la sentì e mi costrinse a farla ascoltare anche a mio fratello. Iniziai a suonare per localini. All’inizio non mi presentavo col cognome, non volevo essere paragonato al colosso, ero solo Nello. Poi, diventai Nello D., infine, nel ’98, svelai pure il cognome. Nel 2015, Pino mi volle sul palco con lui. Mi disse: dopo 15 anni e sei dischi, è arrivato il momento».
E Pino amava il calcio?
«Gliel’ho fatto amare io. Sono stato un capo dei tifosi, amico di Ciro Ferrara e Diego Maradona che ho presentato a Pino. Quante serate insieme... Ho ancora il video di Pino capellone che fa Je so’ pazzo a casa di Ciro, mentre Maradona balla vicino alla porta. Era stato Maradona a chiedere di conoscerlo: gli avevano detto che era l’altro re di Napoli ed erano diventati inseparabili».
Che carattere aveva suo fratello?
«Simpatico, ironico e rigoroso. È stato un esempio per tutti noi che gli siamo stati vicini, perché aveva le sue regole, una sua dignità. Se qualcosa non gli piaceva, non ti parlava per uno o due anni: è successo a me e ad altri. E poi era generoso: regalava pure le sue chitarre più belle. Diceva: non ti devi affezionare alla macchina, l’importante è che ti rimane la patente». 
Era cardiopatico e aveva raccontato di essere stato tre volte vicino alla morte.
Come viveva la malattia?
«Cercava di vivere appieno ogni giorno, faceva il doppio delle cose di prima. Quando ebbi anch’io un intervento, non volevo più esibirmi. Ma lui venne in ospedale e mi disse: fra tre mesi tu sali con me sul palco. Ora lo capisco: se faccio un live sto benissimo e lo stesso era per lui. Quando ebbe il primo bypass, era un intervento serio, non ancora di routine, e tutti pensavano che non sarebbe tornato a cantare. Stette fermo tre anni, ma nel ’93 fece il tour E sona mo’, uno dei più strepitosi. Diceva: finché vivrò, starò sul palco. Al concerto di Capodanno 2015, ero con lui, si sentiva un po’ strano, fu l’unica volta che saltò le prove. Ma la prese sottogamba. Non se l’aspettava, aveva progetti: un disco in napoletano con la chitarra classica, un tour con Pat Metheny. Poi, il 4, l’ultimo attacco».
Perché quella notte fu respinta l’ambulanza di Orbetello e Pino andò a Roma in auto dal suo medico?
«Non ero presente, ma so che Pino voleva fare sempre di testa sua e che era impossibile dirgli di no».
Nel ’94, sempre per problemi di cuore, era mancato il suo amico Massimo Troisi. Lui come l’aveva presa?
«Ricordo che fece il concerto allo Stadio San Paolo con Jovanotti e Eros Ramazzotti e disse: sono passato un attimo a casa di Massimo, ci raggiunge più tardi. Erano come fratelli. Veniva anche lui con Ciro e Maradona a casa di Pino a Gaeta a fare le mangiate di pesce. Si metteva in un angolo, guardava e basta: era come nei film. Ogni tanto, lui e Pino partivano insieme, da soli. Pino diceva “guida Massimo perché io non ci vedo, poi ci camuffiamo e nessuno ci riconosce”. E sparivano per giorni, all’avventura».
Che padre è stato?
«La sua forza erano la musica e i cinque figli, era proprio musica, casa e famiglia. Quando i figli erano piccoli, li portava in tour. Dopo, è stato più difficile. Ma le canzoni che amava di più erano quelle scritte per i figli, Sara non piangere, Sofia sulle note...».
Dei fratelli ha mai scritto?
«In ‘O munn va, ha scritto “L’ammore è frateme e soreme”. E O’Giò di I Got the blues è nostro fratello scomparso. Ue man! è dedicata a mio padre, che era il belloccio del porto che se la faceva con gli americani. Lui e Pino si parlavano in inglese».
Come avrebbe voluto essere ricordato suo fratello?
«Era consapevole del suo valore musicale e dell’affetto della gente. Ogni tanto diceva: solo alla mia morte vi renderete conto di chi ero».