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 2025  febbraio 20 Giovedì calendario

Quarant’anni di ipocondria per immagini, da Woody Allen a Rosa Chemical

C’è un’intervista che feci anni fa, a un regista piuttosto antipatico per un film piuttosto brutto, della quale ricordo solo un dettaglio. Lui doveva aver detto qualcosa circa il pensare sempre alla morte, io dovevo aver espresso una qualche perplessità, e lui mi rispose: mica bisogna essere Woody Allen, per pensare continuamente alla morte.
Il riferimento mi era chiarissimo – “Hannah e le sue sorelle” era stato fondamentale come possono esserlo i film che escono quando hai quattordici anni – ma non sapevo che fosse un problema di anagrafe: la mia età all’epoca cominciava ancora per tre, quella dell’intervistato per cinque.
Non sapevo che quel che mi stava dicendo il mio interlocutore non mi sarebbe parso estraneo per sempre, e che c’è una ragione per cui a cinquant’anni Woody Allen girò “Hannah e le sue sorelle”, un film in cui tra le altre cose parlava della propria ipocondria e si convinceva che ogni sintomo indicasse qualcosa di terminale, e quella ragione è che a una certa età si diventa così – tutti.
Un paio d’anni fa ero a pranzo con una coetanea, e ci chiedevamo se fosse il caso di andare a New York per farci infilare in un nuovo macchinario che avevamo visto pubblicizzato da Gwyneth Paltrow, un affare che vede ogni macchiolina e che è più preciso della tac total body che comunque noialtre ogni tanto facciamo. Lo so, state per obiettare quelle paroline magiche che sono “quesito diagnostico”: trattenetevi ancora per qualche paragrafo.
“Hannah e le sue sorelle” è un film dell’86. Erano gli anni in cui mio padre tornava a casa dalla sala operatoria e, a qualunque mia lamentela, opponeva un definitivo: eeeehhhh, capirai, oggi c’era uno col cancro, l’abbiamo aperto e richiuso. Erano gli anni in cui la diagnostica per immagini, rispetto a ora, praticamente non esisteva: quattordici anni prima io ero nata senza che i miei sapessero se ero maschio o femmina (sarà stato allora che le pensatrici che ci possiamo permettere si sono convinte che il sesso venisse assegnato alla nascita: in epoca pre-ecografica); e la gente con misteriosi dolori veniva aperta in sala operatoria, e solo allora si scopriva che c’era un cancro troppo avanzato per venire trattato.
Al personaggio di Woody Allen nell’86 fanno una tac al cranio perché ha smesso di sentirci, gli dicono che non ha un cancro al cervello, e lui decide di cambiare vita, di licenziarsi, di convertirsi al cattolicesimo. Giacché, beato lui, non aveva i social, che gli avrebbero detto: eh ma magari il cancro ti viene domani e quindi hai fatto un esame inutile che i poveri non si possono permettereeee.
Questa dell’esame inutile la leggo ciclicamente, ogni volta che il folle ufficio marketing del San Raffaele contrattualizza un testimonial per promuovere un macchinario simile a quello da cui volevo farmi esaminare a New York. Negli Stati Uniti, a parte Gwyneth, il macchinario l’ho visto pubblicizzato da Cindy Crawford e dal marito fantastiliardario, e nessuno fa un plissé, essendo loro più abituati alla salute come commercio.
Qui in questi giorni c’è un nuovo scandalo, ovviamente stupidissimo come sempre sono gli scandali dei social, che fa più o meno così: come vi permettete di far promuovere un esame da duemilaecinquecento euro mentre negli ospedali pubblici ci sono le liste d’attesaaaa.
Temo che nelle scuole si sia smesso d’insegnare l’insiemistica, ed è quindi inutile spiegare a questi volenterosi polemisti che l’intersezione tra chi è sia ricco sia ipocondriaco e quindi decide di farsi un costoso esame preventivo, e chi ha qualcosa di specifico per cui il medico di base gli ha prescritto un esame che però la sanità pubblica sarà in grado di fargli quando ormai sarà morto (di vecchiaia), quell’intersezione lì è un insieme vuoto.
In che modo un ospedale privato che compra un macchinario costoso il cui utilizzo fa pagare molto a chi se lo può permettere incide sul disastroso stato del servizio sanitario nazionale? Nessuno lo sa spiegare, d’altra parte se sapessero ragionare non farebbero le polemiche sui social ma attività intellettualmente più impegnative, tipo giocare a padel.
Sono gli stessi che, quando Cortilia fa promuovere la spesa dagli influencer, obiettano: regalate la spesa ai ricchi e non ai poveriiii. Ma, amore della mamma, se la regalassero al barbone all’angolo quello difficilmente pubblicizzerebbe il marchio presso i suoi follower. Ventenni sull’internet, l’insieme più stupido della storia dell’insiemistica. Ma torniamo al macchinario del San Raffaele.
Non c’è il quesito diagnosticoooo, strepitano i polemisti, che hanno imparato le paroline “quesito diagnostico” e le ripetono con la stolidità e la perentorietà che sono immancabili quando un entusiasta impara una parola nuova di cui non ha ben capito il senso, da “patriarcato” in su. Quello che intendono è: se non hai un sintomo specifico, gli esami sono inutili. Sì, buonanotte.
Il più famoso malato di cancro dell’Italia di questi anni si chiama Federico Lucia, è un ipocondriaco molto benestante, e – mentre si faceva un controllo a caso di quelli che facciamo noialtri ipocondriaci benestanti – chi gli faceva l’esame ha visto un puntino, e quel puntino era un inizio di tumore che, avessero aspettato i sintomi per andare a stanare, a quest’ora sarebbero ricchi tutti quelli che scommettono su Federico Lucia al Fantamorto.
Eh ma quindi stai dicendo che la salute è una cosa per ricchiiii. Maggiùra, ma chi l’avrebbe mai detto, ma pensa che fino al macchinario del San Raffaele io ero convinta che al mondo avessimo tutti pari opportunità e che l’importante fosse viaggiare per aprire la mente, mica viaggiare in aereo privato.
Dopodiché bisogna che decidiate qual è la vostra obiezione, perché «costa troppo» e «non c’è il quesito diagnostico» non sono linee editoriali compatibili: se senza il quesito diagnostico non serve a niente, cosa ve ne frega se gli altri la usano e voi no?
Ma non è di questo che voglio parlare, disse lei dopo cento righe di premesse, bensì di una questione che mi appassiona persino di più delle tac e delle risonanze: come diavolo sceglie i testimonial il San Raffaele? La ragione per cui ho intercettato questa polemica è che voialtri da quando c’è Elon Musk su quel social vedete solo fascisti, io vedo solo ventenni. Ventenni che appunto non capiscono l’ipocondria senile, ma anche ventenni che seguono cantanti tatuati.
La ragione per cui è la seconda volta che vedo questa polemica è che ora il San Raffaele ha preso come testimonial Rosa Chemical (l’arnese che al Sanremo presentato dalla Ferragni baciò il di lei marito), e l’anno scorso come testimonial avevano Sfera Ebbasta (mi è servito Google per sapere come si scrivesse).
Ora, questo trionfo di celebrità senza onomastico quale pubblico dovrebbe convincere? Perché io temo che questa gente sia seguita dai dodicenni, e non ce li vedo i dodicenni, anche ricchi, a dire «mamma mamma me lo compri lo scan total body». Cioè, quarant’anni fa (ma pure dieci) io spendevo in borsette e cappottini i soldi che adesso spendo in analisi cliniche. Gwyneth e Cindy hanno un pubblico fatto da noialtre vegliarde, e infatti ci siamo cascate subito: va bene che siamo un paese senza star system e anche poco portato per il marketing, ma chi ha deciso che Rosa Chemical sta all’Italia come Goop sta alla California?
L’altro giorno parlavo con un’amica di posti in cui fare il check-up completo: meglio il San Raffaele o l’Humanitas, ci chiedevamo con l’acribia con cui una volta valutavamo le collezioni di Lanvin e quelle di Prada. La spensieratezza dei trent’anni non tornerà più. L’amica a un certo punto, neanche fosse una polemista dell’internet, ha detto: sì, però magari ti viene un cancro due giorni dopo aver fatto il check-up completo, e quando lo rifai un anno dopo è troppo tardi. Quale allegria, ho pensato, mentre ripensavo a Woody Allen che esce saltellante dal Mount Sinai dopo che il medico, di cui già s’era immaginato la sentenza «non solo hai un cancro al cervello ma è pure inoperabile», gli dice che non ha niente.
Mi sono ricordata che, ogni volta che il cardiologo mi fa l’ecografia al cuore, gli chiedo sempre di garantirmi che non vede i prodromi che mi renderanno infartuata nella notte. Lui ride ma acconsente, e quella è sempre la notte in cui dormo meglio di tutto l’anno, l’unica in cui se mi addormento su un braccio poi non resto a occhi sbarrati a contemplare il formicolio chiedendomi se sia il caso d’andare al pronto soccorso.
Quel che i polemisti dell’internet non capiscono (ma hanno vent’anni, sarebbe strano lo capissero) è che ci si divide, in “Hannah e le sue sorelle”, nel personaggio di Woody Allen, che capisce che morirà e allora si vuole convertire al cattolicesimo perché gli è inaccettabile pensare che morirà e non esisterà più, e in suo padre che sbuffa e dice qualcosa tipo: eh, vabbè, morirò, pazienza, adesso sono vivo.
Oppure ci si divide in noialtri normali e in Carmelo Bene, che diceva che quel guasto che era la poesia era analogo alla morte: «La morte è un bene, libera dai mali: così è la poesia». Noialtri senza afflato poetico, dopo una certa età, al primo doloretto anche immaginario ci facciamo tutte le analisi.