Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 20 Giovedì calendario

Lo stop di UsAid azzoppa l’Onu

Amina siede disperata con due figli piccoli scalzi e sporchi davanti alla baracca che funge da centro di registrazione rifugiati dell’Unhcr ad Adre, prima località del Ciad sul confine con il Sudan. Ha passato la notte lì, nel primo approdo dove si trovano le organizzazioni umanitarie internazionali per i profughi dal Darfur. Negli occhi ha le immagini indelebili dell’inferno, dello sterminio e della fuga di massa da Genina e Nyala. Scene della più grande crisi umanitaria del mondo che va avanti nell’indifferenza generale da 22 mesi con oltre 14 milioni di persone che hanno dovuto fuggire a violenze, stuprie etnici e massacri di civili. Tre milioni sono rifugiati e un milione e 100mila oggi sono nel Ciad.
Immagini come quelle che vediamo sul video girato dai rifugiati sullo smartphone. Migliaia di persone incolonnate per fuggire dalla furia omicida dei paramilitari delle Rsf, le Forze di supporto rapido, e delle milizie arabe loro alleate che stano facendo pulizia etnica in Darfur.
Video della marcia di donne e bambini in marcia verso Adre con la speranza di trovare salvezza dopo essere stati derubati di tutto e aver subito violenze. Un genocidio, ha stabilito l’ex presidente Usa Joe Biden che ha ritrovato la parola pochi giorni prima di finire il suo mandato.
«Mio marito è stato ucciso a Nyala – racconta Amina, la cui storia è uguale a quella di decine di vedove e orfani sedute vicino a lei. Le Rsf uccidono tutti i maschi senza pietà. Sono qui con mia madre, mia sorella e i bambini, abbiamo perso tutto. Ci registreremo e andremo nei campi profughi, ma non torneremo in Sudan».La guerra civile sudanese è scoppiata a metà aprile 2023. Da una parte l’esercito guidato dal generale al Burhan e dall’altra il capo delle Rsf Dagalo.
Il quadro complicato include motivazioni etniche con le Rsf, gli exjanjaweed protagonisti del vecchio genocidio del 2003, formate dalle popolazioni di origine araba della cosiddetta “Baggara Belt” che va dal Sudan al Camerun, intenzionate a spazzare via dall’area le popolazioni nilo-sahariane. Ma uno dei principali motivi dello scontro è anche il controllo delle miniere d’oro di cui è ricco il Sudan in particolare nel Darfur e che sono state scoperte nel 2012 dando vita a una vera e propria corsa in concomitanza con il raddoppio dei prezzi del metallo giallo negli ultimi 10 anni. Ci sono poi le potenze esterne. Al Burhan, sostenuto da Egitto, Eritrea e Iran, ha accusato gli Emirati arabi uniti, di fomentare il conflitto, di fornire armi e di gestire buona parte del traffico illegale di oro delle miniere – la cui estrazione è curata dai russi dell’ex Wagner corporation – che viene ripulito per il mercato ocidentale nelle “lavanderie” di Abu Dhabi. Mentre una quota, secondo la Cnn, arriva in Russia aggirando l‘embargo. Il confine di Adre è stato completamente riaperto. Passano circa 200 profughi al giorno, adesso sta arrivando l’ondata dalla città assediata di El Fasher. Sbarre alzate, un andirivieni di carri tirati da cavalli e asini che portano beni da vendere al mercato sudanese distante poche centinaia di metri. Molti sono tirati da bambini in una zona con il 65% di tasso di analfabetismo. Ma sulla strada che collega Adre a Genina distante 30 chilometri, passano anche le armi che gli Emirati Arabi farebbero arrivare da nord via Libia e che il governo del Ciad non ferma perché, pur restando formalmente neutrale, il presidente Debi appoggia le Rsf e la loro pulizia etnica. Che ha costretto le persone di etnia Mazalit ad abbandonare le case. Molti arrivano ad Adre in condizioni di malnutrizione grave, spesso le donne hanno subito stupri. Almeno la metà delle persone sono rimpatriati ciadiani emigrati in Sudan che vivono nei campi profughi.
A Genina tra la primavera e l’autunno del 2023 vennero massacrate migliaia di persone dalle Rsf. Giddu è arrivato ad Adre nel 2023 ed è un esponente della società civile sudanese che si oppone al progetto di pulizia etnica in Darfur e nel Sudan.
«Dopo i massacri di altre migliaia di persone in fuga anche a Nyala – spiega – le milizie continuano a cercare gli abitanti della tribù Mazalit. Lungo il percorso i miliziani derubano e stuprano i profughi. La comunità internazionale si è è girata dall’altra parte e il governo del Ciad sostiene i ribelli. I miliziani (africani che chiama “arabi”, ndr) vengono da Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana e Mali. Non li pagano e hanno il diritto di saccheggio».
In diverse aree del Darfur settentrionale le agenzie Onu hanno dichiarato la carestia che si prevede in estensione. Gli aiuti umanitari passano col contagocce e solo dopo trattative con le Rsf, che spesso saccheggiano i carichi. E anche in Ciad le risorse sono ridotte all’osso, oltre un terzo dellapopolazione ha bisogno di assistenza umanitaria per la crisi dovuta a conflitti e mutamenti climatici. Per evitare tensioni con la popolazione locale che ha visto Adre crescere a dismisura con gli insediamenti spontanei dei rifugiati, le agenzie Onu e l’agenzia governativa hanno avviato la distribuzione a tutti di cibo e hanno consentito l’accesso all’acqua e ai medicinali. Dopo la registrazione i rifugiati vengono trasferiti ad Adre, popolata soprattutto da vedove e orfani. Tanti minori hanno visto i genitori uccisi dalle Rsf o gli stupri delle madri. Spesso sono stati affidati alle nonne con cui hanno percorso la lunga marcia in ciabatte di plastica verso Adre.
Al centro di smistamento si resta 24 ore poi si parte per uno degli 11 campi sparsi per il Ciad dove i rifugiati si costruiscono una capanna e viene distribuita la razione di cibo giornaliera ora messa a rischio dal congelamento dei fondi dell’agenzia umanitaria governativa Usaid voluto da Trump e Musk. L’Onu ha lanciato lunedì l’appello per i piani di risposta umanitaria per il Sudan, chiedendo complessivamente sei miliardi di dollari per assistere quasi 26 milioni di persone nella regione. L’anno scorso venne coperto circa un terzo della somma e peggiorano il quadro gli incredibili tagli di Trump e Musk. E così attorno al centro di smistamento di Adre, dove sono sorti i campi spontanei di rifugiati in cerca di lavoro fatti di paglia, pali di legno e teli di plastica un gruppo di madri si lamenta: «Stanno razionando il cibo, oggi non ne abbiamo ricevuto». Senza finanziamenti immediati, milioni di rifugiati e membri delle comunità ospitanti continueranno ad affrontare una grave insicurezza alimentare. E chi sta qui ha fame.
Per sfamare i fratellini Soraya, 16 anni, passa la giornata immersa nel fango a costruire mattoni di terra, sterco e vegetali impastati per un dollaro al giorno con quattro lavoranti. Lei è la più grande. «Studiavo in Sudan, a Nyala – ricorda orgogliosa – ma ora devo aiutare la mia famiglia a sopravvivere. Per favore, fate finire questa guerra e date un’istruzione ai bambini o non c’è futuro» Senza aiuti due terzi dei bambini rifugiati non avranno accesso all’istruzione primaria. Un’intera generazione di sudanesi è a rischio. Bambine e bambini che nonostante abbiano già visto l’inferno ti chiedono in inglese come stai riuscendo perfino a sorriderti