La Stampa, 20 febbraio 2025
Weinberg: “Io reduce di Auschwitz rivivo l’incubo. Fermiamo AfD e le idee neofasciste”
«Io lo vedo: è come nel ’33. Hitler ha messo prima un piede nella porta, e i politici tedeschi pensavano di poter collaborare col partito nazista. Pochi anni dopo, la democrazia era diventata una dittatura. I giovani di oggi vogliono vivere quello che ho vissuto io?».
Albrecht Weinberg taglia l’aria con lo sguardo dei suoi occhi piccoli, ogni parola la scandisce con voce sicura, calma, meditata, nonostante i 99 anni che il 7 marzo prossimo saranno 100.
Quest’uomo testimone degli orrori del secolo è uno dei sessanta reduci ancora viventi dei campi di concentramenti. Ad Auschwitz, era chiamato “briciola” dagli altri prigionieri. Era un giovane tedesco di origine ebraica, piuttosto minuto. Mangiava poco, «perciò mi sono salvato, tra le migliaia di fantasmi morti per sfinimento o uccisi davanti ai miei occhi», racconta.
Siede su una poltrona, nella sua casa di mattoni rossi nel paesino di Leer, Frisia Orientale, a un’ora e mezza da Brema, cioè nel Nord della Germania.
Solleva la felpa e mostra i sei numeri tatuati sull’avambraccio sinistro: 116.927. Tra i cimeli nella vetrinetta del salotto, la Croce al Merito della Repubblica federale che il presidente tedesco Steinmeier gli aveva conferito, per il suo impegno nel testimoniare ai ragazzi l’Olocausto, non c’è più. Negli scorsi giorni, l’ha infilata in una busta per rispedirla dritta al mittente, Schloss Bellevue. Poi ci ha ripensato, per un gesto ancora più eclatante: l’ha fatta riconsegnare al Capo dello Stato dall’amico fotografo Luigi Toscano, anche lui tra i premiati, perché autore di un monumentale lavoro di ritratti dei sopravvissuti allo sterminio dal titolo Per non dimenticare.
Albrecht e Luigi, nato in Germania da genitori pugliesi, hanno scelto di protestare contro la decisione del leader del centrodestra della Cdu, Merz, di coinvolgere l’estrema destra nel voto per una legge che vuole la linea dura nei confronti dei migranti.
Weinberg, sopravvissuto a tre lager e a tre marce della morte, spiega con la lucidità di un ragazzo. «Voglio essere coerente, parlo ai giovani ogni anno e voglio dare l’esempio. Non posso accettare che la Cdu si apra all’AfD, che ha frange dichiaratamente neonaziste».
Qualche sabato fa, il 99enne partecipava alle manifestazioni con 2000 persone anti-ultranazionalisti. Oggi, si prepara ai tre compleanni istituzionali che festeggerà dal 7 marzo, per il secolo di vita: in Municipio, alla comunità ebraica e nella scuola da cui i nazisti lo cacciarono, nel 1936, nella vicina città di Rhauderfehn.
Ma la sua mente fa continuamente la spola tra il passato e il futuro. Tra la storia agghiacciante della deportazione e dei campi di lavoro forzato, «dove non avevamo più nulla degli uomini, eravamo bestie su due piedi, formiche, piccolissime nullità di pelle, ossa e mente offuscata», e l’appello ai giovani che questa domenica andranno a votare alle elezioni parlamentari.
«I nazisti hanno sterminato la mia famiglia, anche se eravamo tedeschi – dice –. Mi hanno tolto la cittadinanza, hanno ucciso più di 40 persone tra i miei cari, volevano eliminare anche me e i miei fratelli. Ma voi non la conoscete la Storia tedesca? Come potete pensare che non vi appartenga più?».
E aggiunge: «Aprite la bocca, ragazzi, dite ai politici forte e chiaro cosa vi serve, cosa devono fare per voi». Non pensa che «ci sarà un Quarto Reich, perché un secolo fa tutti andavano in una direzione mentre oggi ci sono più alternative». Ma chiarisce qual è la fonte della sua angoscia: «Se finirete nelle mani sbagliate, tutto può capitare, e più velocemente».
Mentre il sole di un pomeriggio gelido illumina la stanza e il divano su cui è stesa la bandiera di Israele, Weinberg ripercorre il film della sua vita. «Avevo 11 anni, quando iniziarono a concentrarci: prima la scuola ebraica, quella tedesca ci era vietata. Due anni dopo, le SA bussarono alla porta alle 5 di mattina, stavamo dormendo. Spaccarono i vetri, buttarono tutto a terra, urlando “Juden raus! Abbiamo potuto solo vestirci, ci hanno trascinati in strada».
A Leer si preparava il mercato. Lui, i genitori, fratello e sorella sono stati caricati «sui vagoni per le mucche frisone, famose per il loro abbondante latte», spiega Albrecht. Nella piazza rinominata Adolf Hitler Platz, «vecchi e bambini cantavano canzoni sporche, come “Deutschland über alles” e ci chiamavano la rovina, ladri, truffatori».
Mentre i genitori venivano portati a Theresienstadt – era il ’42 – e poi ad Auschwitz dove sono stati uccisi, nel ’44 – il ragazzino minuto, iniziava due anni di lavori forzati. Poi, l’approdo nel campo di concentramento per la Soluzione finale.
«La Frisia è libera dagli ebrei», recitavano i giornali. Nel ’43, Albrecht arrivava a Berlino e al Grunewald, «quel parco così bello per passeggiare», saliva su uno dei dieci treni merci con 90 persone stipate a vagone, destinazione Auschwitz. «Non so quanti giorni abbiamo viaggiato, senz’acqua, bagni, riscaldamento, in piedi – racconta –. Hanno aperto le porte e ricordo quella gente in pigiama col cappellino. I vecchi avevano le gambe anchilosate e cadevano dal treno, noi li calpestavamo, usandoli come gradini».
Erano 940 nel suo gruppo. Avevano separato donne, uomini, anziani e bimbi. «Ci contavano e ci scremavano in base alla corporatura. Ci hanno tagliato tutti i peli, potevamo tenere solo scarpe e cintura. Io ho riconosciuto dagli occhi un vecchio amico, ridevamo. Un ufficiale ci ha urlato: “Smetterete presto di ridere».
Una delle sue fortune è stata quella di ritrovare suo fratello, «così abbiamo vissuto insieme l’inferno». Avevano talmente fame che le impiccagioni a cui li facevano assistere non li impressionavano più.
Weinberg dà il senso della disumanizzazione con un esempio: «Se avessi avuto mia madre di fianco, che stava male, non avrei potuto aiutarla. Nel campo non avevi le forze per pensare a niente, solo a te stesso. Le avrei perfino rubato il cibo, pur di sopravvivere».
Le tre marce della morte erano cammini infiniti, di ore, tra i cadaveri, con gli zoccoli di legno e i piedi marci di piaghe, che potevi coprire con pezzi di vestito tagliato. Dopo Auschwitz, Albrecht è stato portato a Mittelbau-Dora, per lavorare nella fabbrica che sviluppava i missili, e poi a Bergen-Belsen, che era ormai un cimitero. In seguito alla liberazione, dal ’47, è fuggito a New York, dove ha fatto il macellaio.
Aveva promesso di non mettere mai più piede in Germania. Dodici anni fa ha cambiato idea. «L’antisemitismo non se n’è mai andato», spiega.
«Ma sono le idee neofasciste che mi angosciano». I discorsi che sentiamo nel mondo, e dall’AfD, tipo quei biglietti di sola andata recapitati ai migranti come propaganda elettorale «o quella proposta in Sassonia di sterilizzare le donne rom – aggiunge l’amico Toscano – meritano un freno e azioni eclatanti. Il Presidente della Repubblica fermi la deriva di questo Paese».