la Repubblica, 20 febbraio 2025
Intervista a Riccardo Muti
Il programma, spettacolare con la Sinfonia n. 4 di Franz Schubert La Tragica e l’imponente Sinfonia n. 7, capolavoro di Anton Bruckner, ha un fascino musicale tutto viennese. E non a caso, visto che celebra “il giubileo”, come lo chiamano gli austriaci. Cioè, i 50 anni ininterrotti di direzione di Riccardo Muti sul podio dei prestigiosi Wiener Philharmoniker, e 55 circa dal primissimo concerto. Quasi un record, che il direttore tra i più geniali e trionfanti e una delle più grandi orchestre al mondo festeggiano in tournée: il 25 febbraio alla Scala di Milano già sold out, poi a New York. E per Muti, 83 anni, non è che l’inizio di una stagione importante: il 27 marzo a Londra per gli 80 anni della Philharmonia Orchestra, l’1 e 2 maggio con i Berliner al Petruzzelli di Bari, scelto tra i luoghi di particolare importanza per la cultura europea, e a Bologna; e poi Chicago con la Symphony Orchestra, il Ravenna Festival e dal 18 luglio con la Cherubini, la formazione giovanile da lui fondata, in tour tra Stupinigi, Codroipo, Lucca e il teatro antico di Pompei.
Maestro Muti sarà sempre in viaggio. Le piace?
«Macché, non mi piace viaggiare e non mi piace studiare, ma ho viaggiato e studiato tutta la vita».
Il viaggio della prima volta coi Wiener, nel 1971, lo ricorda?
«Sicuro. Mi aveva invitato von Karajan a Salisburgo e avevo anche pensato si fosse sbagliato. Avevo 30 anni. Da tre ero direttore al Maggio di Firenze, ma i Wiener... I musicisti più vecchi avevano suonato con Toscanini e Furtwängler. Erano l’Everest».
E quindi?
«Presi il treno. Arrivai in una Vienna che non era la capitale vivace di oggi. Alla stazione mi misi in taxi per la Sofiensaal, ora distrutta, dove c’erano le prove delDon Pasquale e avevo la tremarella. A ricordarlo mi prende un po’ di commozione, perché oggi Vienna, Berlino, Chicago, queste grandi orchestre, sono una casa, ma quel giorno ero in una favola, con un batticuore spaventoso».
Andò bene, no?
«Il tassista sbagliò strada. Arrivai, prima e ultima volta in vita mia, in ritardo alla prova, trafelato e con metà dell’orchestra fuori dalla sala ad aspettarmi... Poi cominciammo, l’ouverture di Donizetti, e a quel punto giocavo in casa».
È vero che alle orchestre ci si affeziona?
«Sì. Coi Wiener, che non hanno un direttore musicale per scelta, io praticamente mi sento un padre in pectore. Ho conosciuto almeno tre generazioni di musicisti. Loro sono depositari di una cultura europea, perché Vienna è un crogiolo di ceco, italiano, slavo, tedesco e l’orchestra ne è l’espressione più alta, a partire dai grandi compositori con cui ha consuetudine: gli Strauss, Schubert e Bruckner, di cui si appropriò malamente il nazismo. Noi proveremo a restituire il senso metafisico, il senso del creato della sua musica».
Che effetto le fa esibirsi ancora una volta alla Scala, che è stato il suo teatro, e che ora è in mezzo a vari cambiamenti: nuovo sovrintendente, nuovo cda.
«Con la Scala la storia è lunga, il primo concerto del ’71, poi dall’86 i quasi vent’anni di direzione musicale. Ma si parla del passato».
A proposito del passato, lo ringraziò von Karajan, per quell’invito del ’71 a Salisburgo?
«Molti direttori della mia generazione sono stati aiutati da lui, un aspetto che non viene mai messo abbastanza in evidenza. Mi invitò anche nel ’72 dai Berliner, con Maurizio Pollini solista, entrambi al debutto con la filarmonica tedesca. Il programma si apriva con la Sinfonia del Guglielmo Telldi Rossini e, a ricordo di quella prima volta, la rifaremo all’inizio di ogni concerto della tournée coi Berliner. A von Karajan devo anche la chiamata, nell’82 col leggendario Così fan tutte, a Salisburgo, l’inizio di tante opere dirette al festival».
Nel ’71 debuttò in concerto anche alla Scala. In tutte queste prime volte ha contato più il coraggio, la fortuna o lo studio?
«La vedo così: il destino bussava alla mia porta e io la aprivo. L’unica cosa che rivendico con orgoglio è che il destino mi ha sempre trovato pronto».
Cosa vuol dire?
«Devi essere preparato, qualunque cosa tu voglia fare. Io avevo un bagaglio solido. Due diplomi di pianoforte e composizione col massimo dei voti e la lode, maturità classica al Vittorio Emanuele II di Napoli, 5 promossi su 28. E soprattutto, altro che Royal School di qua o Academy di là, io ho alle spalle la scuola musicale italiana: Vincenzo Vitale, Bettinelli, Votto, Maria Carbone con cui ho conosciuto mia moglie Cristina che studiava canto. Con loro ho imparato che non puoi dirigere se non sai suonare il pianoforte. Lo sapevano Votto, von Karajan, Furtwängler, Toscanini, De Sabata, Abbado... tutti i grandi. Oggi i giovani studiano “conducting”, cioè a muovere le braccia, una moda che arriva dall’America. La direzione è altra cosa: prove, concertazione. Nella mia Academy per direttori, agli allevi chiedo prima di tutto di preparare i cantanti al pianoforte».
E se un domani ci sarà l’IA a dirigere?
«Non sono contro l’intelligenza artificiale ma se non la si controlla sarà una strada senza ritorno. In Giappone c’è già un robot sul podio, ma che fa? Muove le braccia. Un direttore deve sentire le note con l’anima prima che con le orecchie. E perciò bisogna studiare, studiare, studiare».
Ha mai calcolato le partiture che ormai saprà a memoria?
«Potrei, che so, dirigere a memoria Nabucco, ma che senso ha? Io con le note ho convissuto una vita, c’è un dialogo, mi parlano, le interrogo. Toscanini diceva: “Dirigo a memoria perché non ci vedo, non capisco perché gli altri mi imitino”. E aggiungeva che l’importante è avere la testa nella partitura, non la partitura nella testa. Mravinskij, il più grande direttore russo, sapeva a memoria Ciaikovskji ma dirigeva con le partiture, stessa cosa Stravinsky, Solti, Kleiber...».
Una cosa che non le piace della musica?
«Che c’è da smuovere le montagne, e parlo dell’Italia. Non si studia la musica nelle scuole, e intendo insegnare a muoversi nella foresta dei suoni, in tv la musica è intrattenimento, non arte. Ci vorrebbe uno tsunami culturale. Io credo che la violenza e il bullismo nei giovani ci siano anche perché non hanno il contrappeso di una formazione culturale e spirituale».
E la sua vita senza musica che sarebbe stata?
«Non so appendere un chiodo al muro, quindi se non avessi avuto la fortuna di prendere in mano un violino a 8 anni, non avrei probabilmente combinato niente».