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 2025  febbraio 20 Giovedì calendario

Il Papa fa teologia con il suo corpo malato

L’ansia diffusa per le condizioni di salute di Papa Francesco esprime solo l’antica curiosità popolare per la sorte terrena degli uomini illustri oppure rivela qualcosa d’altro? Penso che in quelsentimento di apprensione di una parte significativa dell’opinione pubblica conti molto la particolare personalità dell’attuale pontefice. E la particolare situazione della Chiesa cattolica oggi. 
Questa non è certo la Chiesa trionfante, che pure – va detto – la teologia cattolica colloca nel Regno dei Cieli. È, piuttosto, la Chiesa dolente e angosciata. E il corpo vulnerabile di Francesco ne rappresenta l’icona sacra e, allo stesso tempo, la reliquia vivente. Infatti, l’annuncio biblico «e il verbo si fece carne» significa anche questo: significa, cioè, che l’esperienza della fede si trascrive nel corpo del credente, ne diventa parte integrante e ispira la persona e la sua presenza nel mondo. 
Così, la malattia del Papa si fa testimonianza viva e componente essenziale della sua pastorale. La malattia si innerva nella vita, negli atti e nelle parole di Francesco, fino a diventare, per dirla con il linguaggio della liturgia, consustanziale a essa: fatte, cioè, della medesima sostanza. Ne consegue che quello del cristianesimo di Francesco è un essere umano con disabilità, portatore di deficit e di handicap, cagionevole e claudicante, segnato dall’infermità e dalla caducità. In altre parole, una persona imperfetta che il magistero papale dispone – direi con tutto il corpo – nella dimensione del sacro, senza occultarne tuttavia i traumi e le ferite.
Dunque, si può affermare che quella di Francesco è una pastorale del corpo. Basti pensare a come l’intera anamnesi del paziente Jorge Mario Bergoglio venga resa pubblica e illustrata attraverso le diagnosi, le terapie e i percorsi clinici. Ma si deve notare, soprattutto, come Francesco racconti in prima persona il proprio stato di salute, senza nulla omettere e dichiarando i sintomi e le crisi. 
Nel corso dell’udienza generale del 9 febbraio, il Papa interrompe la lettura della catechesi con queste parole: «Adesso mi permetto di chiedere al sacerdote di continuare la lettura perché io con la mia bronchite non posso ancora». C’è, poi, quella sedia a rotelle bianca, diventata una sorta di sudario o di paramento religioso e una forma di faticosa identità, come già fu per un altro testimone della «resistenza umana»: Franklin D. Roosevelt.
D’altra parte, la presenza così intensa del corpo nella sua fisicità ha attraversato l’intero pontificato di Francesco. Appena qualche mese dopo il suo insediamento, il pellegrinaggio a Lampedusa lo vide tra il cimitero del mare, dove affogano i naufraghi, e quello dell’isola, dove vengono sepolti i sommersi. In quella circostanza Francesco fece del corpo migrante del fuggiasco che cerca scampo un soggetto religioso. E domandò: «Chi ha pianto per questi fratelli e sorelle che erano sulla barca?»; rispondendo poi: «Nessuno. Perché siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere e del patire con». In altre parole, una teologia del dolore che nell’arco di dodici anni ha voluto piegarsi sulle sofferenze del mondo: tra i niños de rua dell’America Latina e i detenuti del carcere di Rebibbia, tra i poveri e gli ultimi degli ultimi in Birmania, Bangladesh, Kenya… 
Ecco, la popolarità di questo Papa, che mai sembra indulgere alla vanità e al narcisismo (tanto diffusi nel basso e nell’alto clero), si deve forse a questa sua volontà di dare dignità alla sofferenza nella sua concreta materialità. Il che dovrebbe contribuire a dissipare un equivoco. Francesco è stato criticato da molti, credenti e non credenti, in quanto sarebbe responsabile di una sorta di «sociologizzazione» della fede, se non di una sua deriva socialisteggiante; e di aver assecondato il processo di secolarizzazione delle società contemporanee. 
Si tratta, a mio parere, di un grave errore di interpretazione. Se solo si considera la posizione intransigente del Papa sull’interruzione volontaria della gravidanza (ma anche sull’omosessualità e sul celibato dei sacerdoti), si comprenderà bene come l’umanesimo integrale di Francesco non comporti in alcun modo la rinuncia a quei valori che la teologia morale, ancorché rinnovata, ritiene non negoziabili. E tutto ciò in uno spazio dove la presenza del sacro è intensa, intensissima: non più proiettata, tuttavia, in una dimensione metafisica, bensì radicata nell’esperienza della vita vissuta. 
Forse è questa una delle ragioni per cui, in queste ore, molti «poveri in spirito» e molti tra quanti hanno «fame e sete di giustizia» rivolgono il loro pensiero a quella stanza al decimo piano del Policlinico Gemelli di Roma. E torniamo al punto di partenza. 
La Chiesa in ansia per il suo pastore non è quella del trionfo, è piuttosto una comunità smarrita e inquieta. Anche la sua antica forza diplomatica si è fatta assai esile, inadeguata a giocare un ruolo significativo all’interno dei conflitti in corso, come quello in Medio Oriente e quello tra Russia e Ucraina. D’altra parte, in un mondo dove le figure morali tendono a esaurirsi o ad appannarsi irreparabilmente, l’autorità spirituale di Francesco è ancora viva e trae alimento proprio dalla capacità di «patire insieme». E così quell’uomo vestito di bianco su quella sedia a rotelle tutta bianca continua ad attrarre il nostro sguardo.