la Repubblica, 20 febbraio 2025
Il paziente 1 del Covid ricorda la pandemia
Il coronavirus, Codogno, non sa nemmeno dov’è». Mercoledì 19 febbraio 2020 Mattia Maestri entra per la seconda volta nel pronto soccorso della cittadina del Lodigiano, prossima a diventare la Wuhan dell’Europa. Ha la febbre alta. Gli antibiotici prescritti in ospedale due giorni prima, per curare a casa «una forma leggera di polmonite», non funzionano. Il ricercatore dell’Unilever di Casalpusterlengo, 38 anni, maratoneta in perfetta forma, intercetta un sanitario e fa una strana domanda: «Sarà mica il Covid?». La risposta lo esclude con una battuta in dialetto diventata storia. Passano poche ore e la situazione precipita: la leggera polmonite sta per uccidere un giovane che fino a domenica 16, quando la febbre ha iniziato a salire, stava bene e giocava a pallone con gli amici. «Nessuno sapeva dirmi qualcosa – è il ricordo di Mattia – non ero mai stato così male, senza sapere perché». L’anestesista di turno al pronto soccorso, Annalisa Malara, non si rassegna. Interroga la moglie del malato, Valentina, al settimo mese di gravidanza. Scopre che il 20 gennaio Mattia aveva cenato con un amico appena rientrato dalla Cina. Non può sapere che quell’uomo non era infetto. Il riferimento le basta per infrangere il protocollo e chiedere il tampone capace di individuare il Covid-19. «Il referto positivo è arrivato la sera del 20 febbraio – ricorda Giorgio Milesi, allora coordinatore degli infermieri della terapia intensiva – e l’ho riletto sei volte incredulo. Da quell’istante il mondo è cambiato per tutti».
Mattia Maestri, originario di Castiglione d’Adda ma residente a Codogno, diventa il “paziente 1”: primo europeo a cui il coronavirus viene ufficialmente diagnosticato, primo caso fuori dalla Cina. «All’improvviso mi dissero – sono ancora i ricordi diMattia – che per curarmi meglio dovevano intubarmi e mettermi in coma farmacologico. Ero a un passo dalla morte, disperato, non avevo alternative. Ho perso conoscenza il 20 febbraio a Codogno, convinto di avere la polmonite. Mi sono risvegliato tre settimane dopo nel policlinico San Matteo di Pavia. Per alcuni giorni nessuno mi disse dov’ero, da cosa mi ero salvato, che cosa stava succedendo». L’epopea della pandemia, in Italia, comincia grazie a una deduzione sbagliata e a un’ipotesi inverosimile. L’amico rientrato dalla Cina, con cui Mattia aveva cenato, non era all’origine del suo contagio. Il fatto che gli antibiotici non facessero effetto su un giovane sportivo non era spiegabile se non credendo in ciò che allora era l’incredibile. «Non si è mai scoperto da chi ho contratto il Covid, nei mesi prima di ammalarmi ho sempre fatto la solita vita, qui nel Lodigiano». Certo è che cinque anni fa per lui sono iniziate le riprese di quello che definisce «molto piùdi un film». «In un mese e mezzo – dice – ho preso un virus che fuori dalla Cina allora nessuno conosceva. Non sono morto grazie a medici e infermieri eccezionali. Ho scoperto che anche mia moglie e mia madre erano rimaste infettate ed erano guarite. Ho saputo che mio padre Moreno, il 19 marzo, è morto in ospedale a Varese. Appena dimesso, ai primi di aprile sono riuscito ad assistere alla nascita di mia figlia Giulia, nata a Milano. Attorno a noi un’umanità devastata, migliaia di morti, il lockdown». A salvare Mattia, oltre alle dottoressa Malara, è Raffaele Bruno, direttore del reparto di malattie infettive del San Matteo di Pavia: «Il mio secondo papà, perché mi ha donato una seconda vita».
«Quei giorni tragici – ricorda Bruno – mi hanno insegnato due cose: la normalità è un privilegio, prima eravamo felici e non lo sapevamo». Il 23 febbraio dieci Comuni del Lodigiano vengono isolati dentro la prima “zona rossa”, assieme a Vo’ Euganeo, istituita in Occidente: 50 milale persone di fatto in quarantena, chiusi uffici, scuole e negozi. In soli due giorni i casi di Covid nella zona salgono a 16, il 23 febbraio sono già 60. La scoperta del Covid in Mattia Maestri e la zona rossa del Lodigiano salvano Milano da una strage ancora peggiore, che non risparmia invece Bergamo e la Val Seriana. «Non mi sono mai vergognato di essere impropriamente identificato come paziente 1 – sono ancora i ricordi di Mattia – evitare il contagio per me era impossibile. Un simbolo serviva. La guarigione del primo diagnosticato ha dato fiducia. I malati non hanno smesso di lottare. Medici e infermieri sono stati incoraggiati a moltiplicare i sacrifici per un’impresa che ha restituito a scienza e senso del dovere un ruolo centrale nella vita». Per rimettersi in piedi, dopo un mese di ospedale, gli serve un altro mese. Un anno per riprendere in pieno tono muscolare e controllo delle gambe. Decisiva, la disciplina appresa grazie alla passione per lo sport.
«Nel 2022 – dice Mattia – gli allenamenti mi hanno spinto perfino a partecipare all’IronMan, competizione che somma nuoto, corsa e bicicletta. Sono un miracolato fortunato e un simbolo per sbaglio: accetto il dovere di non sparire, ma è tempo di vedermi riconosciuto anche il diritto di rientrare in un normale anonimato». Cosa resta, cinque anni dopo? «Il Covid ha insegnato due cose. La prima è che la vita è imprevedibile e che per questo ogni istante va goduto senza restare sempre ad aspettare qualcosa. La seconda è che ci salva l’amore: prima di essere intubato ho accarezzato il pancione di mia moglie e le ho promesso che sarei tornato per vedere nascere nostra figlia. Nulla di razionale, ma è questo impegno che per me ha fatto la differenza tra la vita e la morte».