Corriere della Sera, 20 febbraio 2025
L’ipotesi di aprire il mercato russo a imprese Usa
Kirill Dmitriev, amministratore delegato del Fondo russo per gli investimenti diretti, pura creatura politica, era a Riad due giorni fa. Accompagnava la sua delegazione per il primo incontro fra emissari di Mosca e Washington da oltre tre anni. Al termine, lui stesso ha spiegato ai media che le due parti avevano discusso di «riprendere i legami economici in aree d’interesse comune», non solo del destino dell’Ucraina. Da sempre vicino a Vladimir Putin, Dmitriev conosce queste dinamiche. Secondo il Washington Post, nell’aprile del 2017 era alle Seychelles per discutere di affari con Erik Prince, fondatore della milizia privata Blackwater e a quel tempo mediatore privato per Donald Trump (allora appena eletto alla Casa Bianca).
Da Mosca circola una voce, per il momento priva di conferme, coerente con la versione di Dmitriev: il Cremlino stilerebbe una «lista bianca» di imprese americane alle quali offrire il privilegio di investire in Russia. Lo stesso comunicato del dipartimento di Stato martedì da Riad parlava di «gettare le basi per una futura cooperazione su questioni di comune interesse geopolitico e su storiche opportunità economiche e d’investimento». Il cambio climatico, fra l’altro, permette di sviluppare le estrazioni di idrocarburi dal fondale dell’Artico: progetti per i quali la tecnologia americana tornerebbe utile; specie se le opportunità sono offerte a figure influenti a Washington.
Tutto questo presuppone un allentarsi delle sanzioni, naturalmente. Oggi contro la Russia ce ne sono in vigore 15 mila – un numero mai visto – da parte di Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito, Canada, Australia, Giappone, Corea del Sud. I mercati finanziari anticipano già una loro ritirata dal 5 febbraio, quando Bloomberg scrisse che l’inviato americano Keith Kellogg avrebbe presentato un piano di pace sull’Ucraina alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco. Da quel giorno Sberbank, principale banca russa, è salita del 13% alla Borsa di Mosca; l’austriaca Reiffeisen, banca europea più radicata in Russia, è balzata di oltre il 16%; bene anche l’italiana Danieli (più 19%) che ha una presenza storica sia in Ucraina che soprattutto in Russia nei macchinari di lavorazione del metallo. Male da allora quasi solo le quotazioni dei bond di Metinvest, gruppo ucraino dell’acciaio, perché l’esercito russo sta occupando illegalmente le sue miniere nel Donbass e adesso recuperarle diventa più difficile. Benissimo invece Gazprom, monopolio russo del gas, il cui titolo negli ultimi due mesi è balzato del 62%: gli investitori calcolano che alcuni Paesi europei riattiveranno i flussi di metano dalla Russia; in Italia varie grandi imprese energivore premono già sul governo per questo, certo non in pubblico.
Marco Rubio a Riad ha detto che le sanzioni faranno parte del negoziato. Il segretario di Stato Usa ha riconosciuto che almeno di questo dovrà parlare con l’Ue (che ieri ha proposto un nuovo pacchetto di misure contro Mosca, il sedicesimo). Di certo è falso che le sanzioni non mordano su Mosca e non lo si capisce solo perché Putin insiste per cancellarle. Lo dice la realtà. In Russia i tassi ufficiali sono saliti a un astronomico 21%, la Banca centrale ha appena tagliato di netto le previsioni di crescita, la spesa pubblica in gennaio è salita del 73% su un anno prima, ma il governo ha fallito tutte le ultime aste di bond a tasso fisso e riesce a collocare il proprio debito solo a rendimenti stratosferici agganciati all’inflazione. Quanto alla guerra, la Russia ha subito in tre anni oltre 800 mila perdite – fra morti e feriti – eppure controlla oggi meno territorio ucraino di quanto ne occupasse nel maggio 2022: un disastro di Putin, dal quale Trump adesso accorre a salvare il collega.