Corriere della Sera, 19 febbraio 2025
I pellagrosi dei manicomi veneziani
Diagnosi: «Frenesia pellagrosa». Causa: «Miseria». Istruzione: «Nulla». C’è un pacco alto così, nell’archivio di San Servolo, a Venezia, di grandi fogli di carta ingiallita e chiazzata. Cambiano le foto dei ricoverati, febbricitanti, scavati, gli occhi persi nel vuoto. Cambiano le date d’ingresso: 1881, ’82, ’83... Cambiano i nomi: Settimio, Adelio, Gesuino... I motivi che li hanno portati lì, però, sono sempre gli stessi. Diagnosi: «Frenesia pellagrosa». Causa: «Miseria». Istruzione: «Nulla». Diagnosi: «Frenesia pellagrosa». Causa: «Miseria». Istruzione: «Nulla».
E una sull’altra quelle pile di fogli, con le note a margine, formano la biografia di quelli che erano allora il Veneto e il Friuli, da dove fin dal 1809 (poi ai tempi del Lombardo-veneto e dell’impero austro-ungarico anche dal Trentino, dall’istria e dalla Dalmazia) affluivano tutti i «matti» più difficili da gestire. Una terra povera dove c’era chi, deluso dall’Italia appena nata, rimpiangeva la Repubblica Serenissima e perfino la Francia napoleonica e la Vienna degli Asburgo-Lorena con strofette in rima baciata: «Co’ San Marco governava / se disnava e se senava / co’ i francesi, brava gente, / se disnava solamente / co’ la casa de Lorena / no se disna e no se sena / co’ la casa de Savoia / de magnare ti ga voja!».
Nel Polesine e la bassa padovana, «il vino mancava quasi assolutamente e un cibo composto da polenta e aglio non era affatto una rarità. I contadini mangiavano riso o “risetta” alla domenica: a Natale o Pasqua poteva apparire in tavola anche la carne. Solo i “massariotti” e i grossi fittavoli mangiavano il pollo, il maiale e talora il pane», scriverà lo storico Luigi Piva in O soldi o vita (editore Zielo, 1984) raccontando che la miseria era tale da incendiare un brigantaggio così bruto e feroce che il Tribunale statario di Este tra il 1848 e il 1853 comminò 1.144 condanne a morte per rapine nelle case dei più abbienti: «A titolo di esempio se la polenta si mangiava in 100 paesi, il pane veniva mangiato in 22, il riso in 1, i legumi in 74, la pasta in 2, le patate in 7, l’orzo in 4, la segala in 2...».
Troppa polenta, solo polenta, sempre polenta con farina scadente: la migliore andava al padrone, la peggiore al bracciante che coltivava i campi. Spiega ne Il mal della rosa (Franco Angeli, 1984) Alberto De Bernardi: «Il mais diventò così una sorta di coltura-salario, l’unica, reale, forma di remunerazione del lavoro contadino...». Ed ecco la pellagra. La malattia delle «Tre D»: dermatiti, diarrea, demenza. Una malattia così italiana, padana, veneta (Giovanni Battista Ramusio parla del mais in Polesine già nel 1554) che anche in inglese, come ricordano tanti titoli di giornali americani dell’800, il nome resta pellagra.
Tenere i pellagrosi più sofferenti e «vistosi» a San Servolo e San Clemente, isole da sempre usate anche per le quarantene, il più possibile lontano dagli occhi dei veneziani (occhio non vede, cuore non duole...) fu una scelta precisa. Fin dal primo ricovero nel 1725 nell’ex convento per soldati invalidi gestito dai Padri Ospitalieri di San Giovanni di Dio, noti col nome Fatebenefratelli, di un aristocratico di nome Lorenzo Stefani (che sarebbe stato «rilasciato» trentasette anni dopo) nell’«isola dei matti» c’erano vari tipi di «ospitalità». Una decorosa, destinata ai «figli “discoli” dei patrizi, da rieducare con la detenzione» come scrive Nelli-elena Vanzan Marchini in San Servolo e Venezia (Cierre edizioni, 2004), e un’altra spesso terrificante per i malati più poveri e difficili. Visti troppo spesso non come malati ma come ribelli fastidiosi da ridurre alla ragione. Con le buone o con le cattive.
Agghiacciante il resoconto dell’alienista australiano George Alfred Tucker autore nel 1887 dello studio Lunacy in Many Lands sul trattamento dei disabili mentali: «In un corridoio c’erano 33 pazienti in sedie di contenzione, alcune con cinghie intorno ai polsi, alcune con le mani legate dietro la schiena, alcune con le camicie di forza. Alcune delle pazienti soggette a contenzione hanno ampi collari di cuoio attorno al collo e alle spalle, manopole pure di cuoio e braccialetti ricoperti di ferro». Gli stessi braccialetti esposti oggi insieme con catene, schiavettoni, camicia di forza, teschi di «pazzi» sottoposti a studi «lombrosiani», rudimentali apparecchi per l’elettroshock, nel piccolo ma imperdibile museo dell’isola. Ne contò 213, l’alienista, di donne «contenute».
In realtà, spiega il catalogo del museo, la pellagra dovuta all’alimentazione poverissima, era curabile: «Il “vitto nutriente” offerto in manicomio era spesso sufficiente per riportare i pellagrosi alla salute fisica e mentale». Tornando «alla loro condizione rurale di povertà e ad una inevitabile alimentazione a base di mais», però, i poveretti rischiavano d’ammalarsi di nuovo.
Tra le 50 mila circa cartelle cliniche maschili e femminili conservate negli archivi e databili fra il 1827 e il 1978, quando finalmente i manicomi di San Servolo e San Clemente furono chiusi grazie alla legge Basaglia, spiccano storie tremende. Come quella di una giovane contadina padovana che «cercò ripetutamente di togliersi la vita: “Tentativi di suicidio per sommersione in un torrente, per precipizio dalla finestra della propria stanza, per asfissia col chiudersi in una cassa con pesante coperchio”»...
Per non dire del caso di Mattio Lovat, un bellunese scosso da turbe religiose il quale, dopo aver cercato scampo ai peccati carnali in Val Zoldana eseguendo «su se stesso la più perfetta evirazione» con un coltello da calzolaio e gettando «le recise parti» dalla finestra senza immaginare che lì sotto stava passando l’ignara madre, come narrò il medico Cesare Ruggieri in un prezioso libriccino (Cronaca della crocifissione di Mattio Lovat da se stesso eseguita…) tentò per due volte a Venezia di crocifiggersi a imitazione del Cristo, prima in una pensione in calle de la Croce (e dove, se no?) poi a casa propria, nel 1805, buttandosi dalla finestra sulla pubblica via auto-inchiodato a una croce dopo essersi pugnalato al costato. Decisione che gli procurò il ricovero a San Servolo dove sarebbe morto l’anno dopo di tisi. Senza sapere che il suo sarebbe stato tra i primi casi studiati dalla moderna psichiatria e lo spunto per un bellissimo libro, Marco e Mattio, di Sebastiano Vassalli. (...)
Su tutte quelle storie di dolore, soprusi, violenze, però, svetta la tragedia della più famosa (oggi) e la più segreta (allora) delle carcerate di Venezia, Ida Dalser. Riassumerà del 2001, sul Corriere, Alfredo Pieroni: «Mussolini fu davvero bigamo? Il Times di Londra l’ha scritto. Lo storico Denis Mack Smith lo ritiene “altamente probabile”. A tanta distanza di tempo, poco importa. Ma la domanda mi sta dentro da 50 anni, perché all’origine di tutto sono io, che per primo ho avuto per le mani un documento del sindaco di Milano: “Io sindaco di Milano certifico che la famiglia del militare Benito Mussolini è costituita dalla signora Ida Dalser e da figli numero uno...”».
Si chiamava Benito Albino, quel bambino, ufficialmente riconosciuto dal futuro Duce. Era nato l’11 novembre 1915, un mese prima che il padre sposasse civilmente «donna Rachele» (Guidi) dalla quale nel 1910 aveva già avuto Edda. Lei, Ida, era una ragazza di buona famiglia di un paese vicino a Trento così intraprendente da partire per la Parigi della Belle Époque e rientrare dopo gli studi a Milano per aprire con successo un «Salone Orientale di Igiene e Bellezza» che poi avrebbe venduto per finanziare l’uomo di cui si era innamorata e che sarebbe stato la sua rovina.
Come l’amore malato finì in tragedia, col sequestro della poveretta spacciata per pazza da una perizia firmata non da uno psichiatra ma da un otorinolaringoiatra centurione della Milizia fascista e rinchiusa per undici anni nei manicomi prima di Pergine Valsugana e poi di Venezia fino alla morte, è stato raccontato da Marco Zeni (La moglie di Mussolini, edizioni Effe e Erre, 2005), dallo stesso Alfredo Pieroni (Il figlio segreto del duce, Garzanti, 2006), Lorenzo Benadusi («Mussolini ha deciso di internarmi col piccino». Lettere di Ida Dalser a Luigi Albertini 1916-1925, Fondazione Corriere della Sera, 2010) e altri libri. E ancora nel film Vincere (2009) del regista Marco Bellocchio. Così come è stata parallelamente ricostruita la storia del figlio Benito Albino, fisicamente uguale identico al padre, via via rimosso prima da una adozione per far sparire l’ingombrante cognome e poi lui pure rinchiuso in manicomio a Mombello di Limbiate dove morì il 25 luglio 1942: esattamente un anno prima della destituzione del Duce.
Meno note sono le lettere che Ida Dalser, alla quale non era consentita alcuna corrispondenza («Maestà, oso pregarvi vivamente di perdonare la scrittura orribile, perché debbo scrivere a balzi, prendendo e nascondendo il foglio: sono pure senza carta e senza lapis», confida a Vittorio Emanuele III) cercò di inviare all’amante diventato padrone d’Italia o ad altri interlocutori. Lettere gonfie di supplica, rabbia, disperazione e vergate su pezzi di carta fortunosamente recuperati ma tutte requisite dalla direzione del manicomio senza alcuna possibilità di arrivare mai a destinazione.
Lettere nel vuoto. Scritte nella speranza che un giorno qualcuno le avrebbe trovate. E lette. Riconoscendo infine il suo calvario. «Sto male… tanto male… ti prego far giungere Benito fra le mie braccia, egli solo può levarmi il pugnale rovente dal cuore, non mi negare questa grazia santa, fa ch’io muoia chiamandoti il mio divino liberatore». «Meglio morire piuttosto che arrivare in quest’isola...».
Si spense il 3 dicembre 1937. Per quanto se ne sa fu gettata in una fossa comune.