Corriere della Sera, 18 febbraio 2025
Dante Ferretti: «Rivoluzionario come Gesù, Pasolini mi ha inventato. Da lui ho capito che bellezza e verità sono imperfette»
di Valerio Cappelli
18 febbraio 2025
Lo scenografo, premio Oscar: «Con Fellini c’erano stima, rispetto e diffidenza. Li univa il sogno, con cui Pier Paolo indagava la realtà soffocata dal conformismo»
«Io sono grato soprattutto a due persone, Gesù Cristo e Pier Paolo Pasolini. Forse è un accostamento azzardato, ma sono tante le cose che accomunano le vite di questi due rivoluzionari che hanno scandalizzato il loro tempo», dice Dante Ferretti. Con Pasolini, si sono dati fino all’ultimo del «lei», che è impensabile pensarlo nel mondo del cinema. Ma lui com’è noto abitava tante vite, e in Bellezza imperfetta (edito da Pendragon) il grande scenografo tre volte premio Oscar racconta col suo modo poetico, scanzonato e malinconico di un intellettuale che entrava e usciva dal grande schermo, frequentando mondi artistici limitrofi ma diversi. Nel libro, che presenterà con Dacia Maraini il 22 all’Ara Pacis, c’è il suo lungo sodalizio professionale e umano con un uomo, Pier Paolo Pasolini, che aveva il dono di capire il suo tempo, e spesso di anticiparlo.
Quando ha visto Pasolini per la prima volta?
«Da ragazzo, ero appena arrivato a Roma. Stavo a pensione da una signora in via dell’Oca, sopra il suo barbiere. Lui si era appena tagliato i capelli, era di spalle. Abbiamo lavorato insieme in otto film, fino all’ultimo, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Sembrava un condottiero più che un regista. Pier Paolo fu ucciso il 2 novembre 1975, a due settimane dall’anteprima francese».
C’è qualcosa di biblico nella crudeltà con cui fu ucciso. Che ricordo ha del Vangelo secondo Matteo?
«Era la nostra prima collaborazione. 1964. Fui io a inchiodare Gesù Cristo nella scena della crocifissione, al parco della Murgia materana. La madre di Pier Paolo interpretava Maria ai piedi della croce, che avevo costruito montando pezzi di legno forniti da un artigiano locale».
Lei aveva 21 anni. Come conquistò la sua fiducia?
«Che fossi così giovane e inesperto non era un problema per lui. Io ero aiuto scenografo di Luigi Scaccianoce. Matera all’epoca era una città distrutta e non alla moda come oggi. Girammo nelle grotte scavate nel tufo; entrai in un sasso e dentro c’erano gli animali, un vero presepe vivente. Ci spostammo in Calabria, quando Gesù cammina sulle acque uno degli attori confidò a Pasolini di non saper nuotare; gli rispose che doveva credere ai miracoli e quella era la volta buona per imparare. Poteva essere molto simpatico».
A 25 anni, Medea.
«Ero appena tornato dal set di Fellini Satyricon, era estate e un mio collega mi chiese di andare al mare, a Fregene, con lui. Entrato in auto mi resi conto di aver dimenticato il costume. Per le scale sentii lo squillo del telefono. Era Franco Rossellini, un importante produttore. Mi disse: preparati, fai veloce, devi venire subito in Turchia. Pasolini sta girando un film in Cappadocia e vuole te. Non gli piace lo scenografo che gli hanno proposto. Medea fu il mio primo film come scenografo titolare».
Piombò sul set e…
«Pasolini era scalpitante. “Ferretti, finalmente – esordì così come se l’avessi visto cinque minuti prima –, poi parliamo di tutto, ma tra due ore devo girare la scena in cui Medea appare su un carro, dove ucciderà il fratello. Ci serve un carro con la C maiuscola. Mi fissò intensamente: “Lo deve costruire immediatamente”. Mi dava del lei e la cosa faceva un po’ ridere se ripenso a quando avevamo visto in tv a casa di Maria Callas a Parigi Italia Germania 4-3, e al gol decisivo esultammo come pazzi continuando a darci del lei. Mi ricordai che da bambino a Macerata avevo visitato il museo della carrozza, dove c’era un calesse con le ruote in legno senza raggi e il tettuccio di pelle sfrangiata. Pensai alla pelle che unisce il mondo antico, primordiale, a quello razionale e moderno».
Tornando a Satyricon, una volta ci raccontò un aneddoto divertente…
«Fellini chiese a Scaccianoce una tonalità di beige per un interno. Glieli bocciava tutti, non andava bene nessuno, finché io per terra vidi un pezzo di cartone e a Federico dissi: maestro, è questo il colore che cerca? Lui annuì e chiese: “Tu chi sei?”. Sono l’aiuto di Scaccianoce, sono sul set da tre mesi. E cominciò a chiamarmi Dantino».
La sua carriera è decollata con Pasolini e Fellini.
«Hanno costruito il mio immaginario. Federico aveva letto Ragazzi di vita e si era convinto che avrebbe potuto aiutarlo nella scrittura di alcune scene di Le notti di Cabiria, la loro prima collaborazione. Pier Paolo inventò lo zio paralitico che va al santuario del Divino Amore, poi trovarono insieme in un’esplorazione notturna la prostituta romana che poi diventò Saraghina. Si sono osservati a distanza, con stima, rispetto, a volte diffidenza. Pier Paolo c’era rimasto male per il mancato appoggio nella produzione di Accattone, ma Federico poi lo difese dalla censura. Nel suo Libro dei sogni, opera postuma, disegnò Pasolini seminudo nel suo letto di adolescente. Per Federico tutto era sogno, Pier Paolo col sogno indagava la realtà, soffocata dal conformismo. E i due piani si sovrappongono».
Ma cosa li accomunava?
«Proprio quello, la dimensione onirica. E amavano entrambi tante cose: le ombre, Pina Bausch, i tortellini, Kafka, la danza, il dialetto, il mito, la psicoanalisi, la vita».
Andiamo avanti col Decameron.
«Sul set a Casertavecchia, borgo meraviglioso, Pier Paolo mi mostrò una scala del Quattrocento, mentre Boccaccio è del secolo prima. Glielo dissi e mi freddò: “Ferretti, non dica così, lo sa che Boccaccio è proiettato nel futuro? Il tempo non esiste per quelli come Boccaccio”. Io esclamai: “Perfetto!”. Sono parole che mi aprirono la testa. L’artista deve andare oltre la fedeltà storica. Gli errori, le sporcature, le imprecisioni rendono più credibile e potente un’opera artistica. Questa è una delle grandi lezioni di Pasolini: la bellezza, come la verità, è sempre imperfetta».
Quel film ebbe problemi di censura.
«Nel 1971 vinse l’Orso d’argento alla Berlinale. In Italia fu accusato di oscenità e pornografia. Ci sono diversi nudi integrali maschili, che non erano tollerati. Per Pasolini era mortificante continuare a essere giudicato come un omosessuale privo di moralità».
Parlavate di vita quotidiana?
«No, quasi mai. Non era interessato alle vite private. Non ricordo di averlo mai sentito offendere qualcuno. Ma ricordo un episodio epico: vicino a Parma, mentre giravamo Salò, Bertolucci girava Novecento, ci fu una partita di calcio tra chi lavorava nei due film e noi perdemmo 5 a 2. Tra gli avversari c’era un ragazzo che si chiama Carlo Ancelotti: fece un fantastico gol in mezza rovesciata. Pasolini era un acceso tifoso del Bologna, diceva che il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Era un uomo cordiale che sceglieva a chi dare confidenza. Si concentrava sulla riuscita delle sue creazioni. Spesso parlava di arte, pittori e critici, di Roberto Longhi, di Piero Della Francesca… Mi ricordava Scorsese, che per un’inquadratura era capace di farmi guardare cinque film».
Lei fu chiamato all’Idroscalo di Ostia la mattina in cui lo uccisero.
«Mi ritrovai tra baracche e immondizia a fare dei disegni sul posto, una specie di piantina, come un poliziotto della scientifica. La sua morte fu uno choc. Ci misi del tempo a realizzare che era tutto vero. Lui, come dico nel libro, era stato il cantore della bellezza del corpo: quel cadavere deturpato, preso a calci e a bastonate, schiacciato dalla sua stessa auto, era un Cristo martoriato caravaggesco, un’icona brutale che era la negazione dell’uomo che avevo conosciuto, un ragazzo di vita pieno di una vitalità coraggiosa e selvaggia».
Il libro è un ritratto scanzonato e crepuscolare di Pasolini. Ma quale immagine le viene in mente pensando a lui?
«I pantaloni a zampa di elefante, il maglioncino a scacchi, gli occhiali da sole, la sua voce nasale, le parole taglienti come lame. Pasolini mi ha insegnato tutto: a credere nei giovani, ad amare il mio lavoro, a non avere paura delle mie paure. Mi ha inventato, mi ha reso ciò che sono. Posso dire un’ultima cosa?».
Prego.
«Nella sua vita ha subìto 33 processi. Trentatré, gli anni di Cristo».