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 2025  febbraio 18 Martedì calendario

Oriana Fallaci racconta Coco Chanel

Esce il volume Oriana Fallaci. Processo alla minigonna, per Rizzoli. La penna affilata della Fallaci mette a nudo i grandi stilisti in pagine memorabili, frutto di una selezione dell’archivio degli articoli scritti negli anni ’50. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto della lunga intervista pubblicata da L’Europeo l’11 maggio del 1958 «Coco Chanel, la donna più odiata dai sarti di Parigi».

C’è chi le attribuisce novant’anni. Ma lei dichiara di averne appena settantacinque e io le credo. «Ma chérie, l’unico modo per invecchiare psicologicamente è diminuirsi l’età.» È la sola donna della Haute Couture francese sebbene dica, puntandoci in faccia l’indice secco e implacabile: «Non è vero. Le altre portano i calzoni». Ma non è nemmeno una donna.
È un demonio: di cui tutti hanno paura, adorandola, e subiscono le capricciose insolenze. Picasso arrossisce quando lei gli rimprovera che un suo quadro è brutto: «Non capisco, Pablo, perché tu abbia smesso di fare quei bei disegnini che facevi quando eri morto di fame e le gambe, anche per te, erano gambe, e gli occhi erano occhi. Dovrei pigliarti a schiaffi». Stravinskij china la testa quando lei batte il pugno sul tavolo e urla: «Cos’è questa marcia funebre, Igor? Non sono ancora morta, per Giove. Suona qualcosa di allegro. Te lo ordino, Igor!». Cocteau balbetta come uno scolaro quando lei lo prende per il mento e gli dice: «Mon petit enfant, sei un pettegolo e mentre parlo devi star zitto. Ubbidisci a Coco».
Non è nemmeno una couturière: è una leggenda. Quattro editori, Plon, Gallimard, Flammarion e Grasset, la supplicarono per anni di scrivere lo straordinario romanzo della sua vita. Un giorno lei si decise e disse: «Bien, però voglio affidarlo a Paul Morand e Louise de Vilmorin. Io ci metto le virgole». Infatti glielo affidò ma, al momento di metterci le virgole, il manoscritto finì nel cestino: «Puah! La mia vita era più interessante».
Ora vogliono servirsi del suo personaggio per un film: e lei batte i piedi. Vorrebbe Katharine Hepburn, ma Katharine ha troppe rughe per recitare la parte di quand’era bambina. Vorrebbe Audrey Hepburn, ma Audrey ha la pelle troppo liscia per recitare la parte di ora che è vecchia. «E poi nessuna attrice potrà mai essere Chanel perché Chanel sono io!» protesta indignata. Infatti vi parlo di Coco Chanel, la sarta più saggia e meno eccentrica del mondo, la prima che abbia fabbricato vestiti funzionali come la gonna e il pullover, la prima che abbia inventato un profumo (lo Chanel numero 5), la prima che abbia lanciato i tacchi bassi e i bijoux, i capelli corti e il maquillage appariscente: regole di una eleganza che, ancora oggi, essa predica a «tutte le donne di tutti i paesi». Coco è anche la prima (e l’ultima) che abbia preso a pedate una miliardaria che le diceva: «Non dovresti essere così democratica, Coco. Le povere non dovrebbero portare i nostri vestiti, Coco».
Sono in molti, a Parigi e in altre città della terra, che hanno ricevuto a fatti o a parole le pedate di Coco Chanel. E, per questo, avvicinarla è quasi impossibile. Le sue funzionarie sanno talmente bene quanto lei sia sincera, che la rendono inafferrabile come un fantasma. Ma una volta a mezzanotte telefonai all’Hotel Ritz dove il fantasma dorme da circa vent’anni perché nel suo appartamento non c’è nemmeno una camera da letto, e una voce di bimba arrochita rispose: «Domani alle tre, in Rue Cambon. E se le streghe dicono che non ci sono, le mandi all’inferno e salga lo stesso». Così andai in Rue Cambon dove dal 1918 ha sede la Casa Chanel e le funzionarie sembravano molto turbate. «Un appuntamento con Mademoiselle! Mademoiselle non riceve nessuno!» E quell’uomo carico di orribili macchine: chi era costui? Costui era il fotografo. Un fotografo per fotografare Mademoiselle? Via, via! Dobbiamo chiamare un gendarme? Si alzava al soffitto un brusio di proteste indignate: quando l’aria fu squarciata da un dispotico urlo.
«All’inferno! Conduceteli su» gridò la voce da bimba arrochita di Mademoiselle. Di colpo il brusio di protesta cessò e, scortate da una funzionaria tremante, raggiungemmo l’appartamento di Mademoiselle che è all’ultimo piano della Casa Chanel, al di là di un corridoio foderato di classici come Molière, Rousseau, Proust, Mallarmé, che Mademoiselle afferma di sapere a memoria «perché gli accademici di Francia non li leggono mai fino in fondo ma io sì». Così entrammo nello studio più lussuoso che un couturier abbia mai avuto «perché il lusso non è il contrario della povertà ma è il contrario della volgarità» dice Chanel, «e nella mia vita, malgrado i quattrini, ho sempre cercato di non apparire volgare».
C’erano paraventi di Coromandel, lampadari di cristallo di rocca, trumeaux verniciati d’oro zecchino, quadri di Renoir e di Picasso, cervi a grandezza naturale scolpiti nell’ebano, statue di bronzo e, in mezzo a questo museo, con le mani spavaldamente posate sui fianchi e il capo nell’ombra perché non si vedessero le rughe, c’era la leggenda che si chiama Chanel.
Era una cosa minuscola: così minuscola che l’avreste sollevata col mignolo. Cominciava con un paio di scarpe bianche, chiuse alla caviglia, simili alle calosce che un tempo si usavano quando pioveva, e poi continuava con un paio di gambe ben fatte, scoperte fino al ginocchio, dove le accarezzava l’orlo di una gonna di jersey blu scuro, stretta sui fianchi da adolescente, e sopra la gonna c’era un giacchino del solito jersey blu scuro, cortissimo, con quattro tasche e i bottoni dorati. Il giacchino era aperto su un torace fragile, fasciato da una camicetta color avorio su cui era posata con negligenza la celebre collana di perle che vale quattrocento milioni di franchi.
Sopra la collana di perle c’era un’altra collana di pietre dure, con un ciondolo formato da un rubino e un brillante, e da questo Niagara di gioielli sbocciava un collo sottile su cui si avvitava una testolina di riccioli neri e, sopra i riccioli neri, un cappello bianco, rotondo, a bebè.
«Dunque, l’esame è finito?» chiese Chanel quando fui arrivata al cappello e, tenendo il busto in avanti, porse alla lampada il volto avido e magro perché guardassi anche quello con comodo. La lampada illuminò crudelmente le rughe incipriate con cura, le labbra cariche di rosso violetto, il naso largo, schiacciato, dalle narici palpitanti e la punta rivolta appena all’insù, i grandi occhi ironici, vivi, dalle ciglia appesantite di rimmel, le sopracciglia disegnate col carboncino. Era un volto che faceva quasi paura, ma Coco lo esibiva con fierezza insolente perché in qualcosa esso ricordava, malgrado tutto, la splendida donna che fu. «Immaginate» dice Cocteau «una Marlene Dietrich con lo sguardo nero, i capelli antracite e la pelle di una tuberosa. Ho visto uomini suicidarsi per lei.» Coco rise con amarezza e si aggiustò il cappello a bebè.«Una donna» disse «non è mai elegante senza il cappello. Io lo porto anche in casa.» Poi alzò un poco il colletto: «Ho male alla gola. Dovrei coprirmi di più. Ma odio i colletti fino alla gola. Trovo che invecchiano». Tentai un complimento.