Avvenire, 18 febbraio 2025
Ad Alzano, dove partì il Covid
«Attesa pazienti potenzialmente No Covid».
Là dove tutto iniziò, il cartello è ancora appeso alla parete, quasi come un’iscrizione tornata alla luce da un’altra era.
In una mattina qualsiasi di cinque anni dopo, il Pronto soccorso di Alzano Lombardo è quasi vuoto. Due pazienti, senza mascherina nonostante la raccomandazione a indossarla, siedono in annoiata attesa nel punto esatto dove si spalancò l’inferno. Qui come ovunque, la pandemia è un ricordo sbiadito. Il fatto che Alzano sia stato l’epicentro del contagio in Bergamasca è un motivo in più per dimenticare quei giorni tremendi, quando ci si affrettava a etichettare la Bassa Val Seriana come la “Wuhan d’Italia”. «Ci hanno fatto passare per untori – si sfoga il sindaco Camillo Bertocchi -, ma siamo stati proprio noi le prime vittime: i primi positivi arrivarono nel nostro ospedale dai paesi vicini. Poi si è saputo che c’erano già stati casi anche in Val Brembana». Quando il Covid spuntò all’orizzonte, in pochissimi se ne accorsero. «Nella chat della scuola una pediatra dell’ospedale scrisse: sta arrivando qualcosa di grosso, teniamo i bimbi a casa – ricorda Antonio Terzi, storico libraio di Alzano – io infatti alle prime avvisaglie abbassai la saracinesca, anche perché io stesso avevo la febbre. Una scelta prudente, che però fu criticata da altri commercianti». Lo scellerato hashtag #bergamononsiferma, che rimbalzò sui social dopo la notizia dei primi contagi, è rimasto scolpito nella storia. Quel 23 febbraio 2020 il sindaco Bertocchi se lo ricorda bene. «Avevano appena sigillato Codogno, c’era la sfilata di Carnevale in programma. Aprii una chat con gli altri sindaci della zona: alla fine decidemmo tutti di sospendere le manifestazioni per cautela. Poi arrivarono i primi rumors, partì un frenetico giro di telefonate». Gli eventi precipitarono rapidamente, la prefettura radunò tutti i sindaci bergamaschi nell’auditorium dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, che di lì a qualche giorno diventò la prima linea nella lotta contro il virus. «Fu la famosa riunione in cui ci si ritrovò tutti senza mascherine. E dove ci fu detto che la situazione era seria, ma non preoccupante». Due settimane dopo diventò disastrosa: in Val Seriana arrivarono i militari per istituire la fa-migerata zona rossa. «I carabinieri avevano già preparato i turni, il provvedimento era dato per scontato. Ma non arrivò mai». Il 9 marzo scattò il lockdown in tutta Italia. Sulla carta, in base all’art.32 della legge 833 del 1978, anche il presidente della Regione e gli stessi sindaci avrebbero potuto emanare ordinanze “contingibili e urgenti” per chiudere il territorio. Ma Bertocchi dissente: «Per prendere una decisione del genere avrei dovuto avere a disposizione dati epidemiologici che in quel momento non c’erano. Chi se l’è presa con i sindaci è stato ingeneroso e anche un po’ cattivo. Abbiamo fatto tutto il possibile, distribuendo mascherine, tute e guanti. Abbiamo ordinato 30 bombole quando tutti assicuravano che l’ossigeno non sarebbe mai mancato». E invece mancò l’aria, letteralmente.
L’avvocato Consuelo Locati sospira. Adesso assiste l’associazione familiari delle vittime, in quei giorni era a casa con la febbre alta e cercava disperatamente ossigeno per papà Vincenzo, che poi venne a mancare. Dal suo studio in via Borgo Palazzo, a Bergamo, indica la strada: «Mio padre è passato proprio qui, trasportato su un camion militare. Chi dice che era tutto un fake non merita nemmeno una replica» L’inchiesta della procura di Bergamo sulla “mala gestio” della pandemia si è conclusa con una raffica di archiviazioni. A fine gennaio, però, il gip di Roma ha disposto l’imputazione coatta per Ranieri Guerra, ex dg del ministero della Salute, in relazione al mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale. «Ci siamo opposti all’archiviazione e il giudice ci ha dato ragione. Questa decisione riapre la partita – commenta Locati – Non ci arrenderemo mai. Lo devo alle 660 persone, non solo bergamasche, che chiedono giustizia per i propri cari. Ora aspettiamo le decisioni della Corte europea per i diritti dell’uomo, e soprattutto della Cassazione: se il 10 aprile dovesse stabilire che il reato di epidemia colposa sussiste anche in caso di condotte omissive, crollerebbe il castello su cui si sono basate le archiviazioni». Dietro la battaglia legale, restano le macerie di una catastrofe immane. Don Filippo Tomaselli, parroco di Alzano, si trovò al centro della tempesta. «Non ebbi nemmeno il tempo di riflettere, tutto fu così vorticoso. Sono però riuscito a dare una benedizione a tutti i defunti, fino a 10 al giorno. In ospedale vidi la chiesa piena di bare, nella casa di riposo non bastarono le tre camere ardenti. In una situazione del genere corri, vai, tenti di dire due parole alla gente travolta da tanto dolore. Poi ti fermi e crolli. Una sera mi ritrovai solo nella cappelletta: scoppiai a piangere e andai avanti per 10 minuti». Anche nel pozzo più nero, però, può accendersi una scintilla di speranza. «Di quei giorni non ho solo ricordi brutti: si respirava un clima di vera comunità. Tanti mi chiedevano cosa potevano fare per gli altri. Nacque anche un gruppo di supporto per i familiari delle vittime». Una volta fuori dall’incubo, Alzano ha però avuto fretta di perdere la memoria. «C’è stata una sorta di censura emotiva. Eppure c’è ancora tanta gente che soffre. Certo, pensavo che dopo il Covid le cose sarebbero cambiate, che avremmo imparato la lezione. Invece siamo tornati quelli di prima…».