Avvenire, 18 febbraio 2025
«Io, eritrea, e il bimbo siciliano adottato»
«La Sicilia mi ha accolta. Palermo mi ha riconciliato con me stessa e fatto diventare una psicologa. Era giusto che mi mettessi a servizio di questa terra». Yodit Abraha sorride. I lunghi capelli neri scendono oltre le spalle. È nata in Eritrea ma il suo passaporto è etiope. E dal 1984 vive nella Penisola o, meglio, nell’isola dove è approdata per ritrovare i genitori fuggiti dall’Africa in cerca di un futuro migliore e dove «io sono rinata dopo essere stata sradicata dal mio Paese». La cittadinanza italiana non l’ha mai chiesta. «Ma io mi sento italiana a tutti gli effetti. Lo dicono, ad esempio, il mio accento o il mio modo di gesticolare. Ed è uno scandalo che non si acceleri il procedimento per ottenerla», dice subito. Per lei restituire alla Sicilia quello che ha ricevuto ha significato una duplice scelta: dedicarsi ai migranti e dare una famiglia a un bambino che non ce l’aveva. Giuseppe è il ragazzino che ha in affido. «Ho chiesto esplicitamente che fosse un palermitano perché a Palermo devo tantissimo», racconta la donna. Lui ha 11 anni. Frequenta la quinta elementare. E da 6 è suo figlio “sine die”, come ha stabilito il giudice tutelare dopo che la futura mamma era passata dal Centro affido del Comune. Giuseppe la chiama «mamma» nonostante il differente colore della pelle. E insieme hanno creato sui social una sorta di sit-com che hanno ribattezzato “Diario di una mamma scoppiata”. «Perché voglio raccontare la realtà, senza nascondere le difficoltà», dice Yodit. Come quelle che tocca con mano tutti i giorni nella struttura per l’accoglienza dei migranti di cui è la coordinatrice. È “Casa di Lucia”, rifugio per le donne, anche con figli, sbarcate nell’isola sui gommoni della speranza. A gestirla è il Cresm, il Centro ricerche economiche e sociali per il Meridione, e fa parte della rete di accoglienza del Sai Palermo, il Sistema accoglienza integrazione finanziato dallo Stato e voluto dall’amministrazione comunale. Ventuno i posti a disposizione nel Cresm per chi arriva dalle altre sponde del Mediterraneo. «Prendersi cura di chi è in grave difficoltà richiede molte energie – confida Yodit – ma siamo una grande famiglia. Ed è quella di cui fa parte anche Giuseppe. Per certi versi lui vive in una comunità domestica più ampia, come accade Africa». Una pausa. «La mia è una scelta di maternità. Però nell’affido non c’è un paracadute che ti sostiene. E il tasso di fallimento è elevato».
Ancora ricorda quando negli anni Settanta la madre e il padre sono partiti alla volta dell’Italia. «L’Italia che ci aveva colonizzati – chiarisce –. E trovavi in Eritrea ed Etiopia chi chiamava gli italiani “brava gente” e chi li accusava di segregazione». Lei era rimasta in Africa, cresciuta dai nonni materni. «Ho ancora in mente la loro casa aperta a chiunque avesse necessità. Erano poveri ma prevaleva in loro la volontà di condividere anche il poco che avevano». I suoi in Sicilia. «Approdati da irregolari. E ora cittadini italiani». Poi l’arrivo di Yodit e del fratello. «Mi sentivo persa ed estranea. Non è stato facile qui». A Palermo l’incontro con «una città multiculturale», fa sapere. «E leggendo un libro sulle case-famiglia ho deciso di iscrivermi all’università. Mentre studiavo, sono stata badante e baby- sitter». Lei ce l’ha fatta. «Adesso tocca a Giuseppe guardare al futuro». Al suo fianco la mamma che, per la legge, rimane straniera ma che Palermo considera una figlia a pieno titolo.