Corriere della Sera, 17 febbraio 2025
Berrettini, «amico di tutti e migliore amico di nessuno»
Il numero uno del mondo che patteggia con la Wada tre mesi di squalifica assumendosi la responsabilità (anche) dell’errore di un ex componente del team che oggi è qui in Qatar come preparatore atletico del compagno in azzurro con cui a novembre ha rivinto la Davis. Davanti al corto circuito, Matteo Berrettini non si tira indietro.
Cosa pensa dello stop forzato di Sinner?
«Ho sempre sostenuto Jannik, non smetto di farlo adesso. Credo sia un momento molto duro per lui, paga un errore, mi dispiace. Non faccio l’avvocato, non ho i dettagli. Ma non ho dubbi che tornerà più forte».
Sinner paga la disattenzione di Umberto Ferrara e Giacomo Naldi. Ferrara è il suo preparatore. Non è una situazione un po’ strana?
«Dice che la gente se lo chiede? Non so se è il mio ruolo rispondere. Posso dire che quando scelgo un membro nuovo del team, dietro ci sono riflessioni e pensieri: considero Umberto un serio professionista, l’ha detto anche Jannik in forma pubblica e privata. È stato fatto un errore, purtroppo. Non doveva succedere ma è successo. Quando ho incontrato Umberto per parlare di lavoro questo tema è entrato nella conversazione, naturalmente. Ma la valutazione è stata un’altra: io sono convinto che possa aiutarmi nel mio processo di crescita. Se poi la gente è stupita, stranita, arrabbiata, non so che fare. Sinceramente ho smesso di preoccuparmi di quello che pensa la gente tempo fa: se leggessi ogni commento, non reggerei al peso di tutto».
Ha sentito Jannik?
«No, mi sembra più giusto rispettare il suo momento».
È d’accordo con il criterio ribadito dalla Wada della responsabilità oggettiva?
«L’argomento è complesso. È difficile, anzi impossibile, controllare tutto. L’Atp ci aiuta: quando andiamo a giocare in certi Paesi ci sconsiglia per mail di mangiare carne rossa che potrebbe essere contaminata, per esempio. Da sempre siamo abituati ad avere un’attenzione estrema, poi possono sempre succedere cose che sfuggono all’attenzione».
Si parla spesso di amicizia ma esiste l’amicizia nel tennis? Italiani a parte, non si è notata una grande empatia nei confronti di Sinner.
«Io sono amico di tutti e migliore amico di nessuno. I miei veri amici non sono i miei colleghi ma non perché mi stiano antipatici. I veri amici si costruiscono dall’infanzia, col tempo, vanno coltivati. Ai tornei crei il tuo nucleo, la tua squadra. È chiaro che con Sonego, Bolelli e Vavassori ho un rapporto più intimo: ci conosciamo da una vita. Ma se Vava si molla con la fidanzata non viene a raccontarlo a me... Nei momenti di crisi non ti rivolgi al collega ma all’amico. Stiamo parlando di amicizie di lavoro. E alla base di tutto deve esserci il rispetto, che spesso manca».
Che momento è, questo, del cantiere Berrettini?
«Di transizione e costruzione. Erano anni che non iniziavo una stagione senza pensare al mio corpo. Quasi mi fa strano. Sto ritrovando il mio equilibrio: ora posso permettermi di programmare un futuro, quando non stavo bene era tutto un navigare a vista. Sono molto duro con me stesso, ed è un’arma a doppio taglio: questa severità mi ha permesso di spingermi oltre i miei limiti ma in altri momenti, magari di difficoltà, tendo a buttarmi giù più di quanto dovrei. Sto lavorando bene però chiedo a me stesso un po’ di pazienza. Sento che succederanno belle cose. Ho molta fiducia in ciò che sto facendo».
Certo i sorteggi, ogni tanto, potrebbero non remare contro: domani al primo turno, qui a Doha, trova Djokovic.
«Sarà un match durissimo. Ho provato a ricordarmi da quanto tempo non ci gioco contro o non ci alleniamo insieme… Nel bene o nel male, rimane Djokovic. Sono contento di poter giocare una partita così, mi sento in forma e in forze: sono questi i match che mi motivano a dare il meglio. E magari, speriamo, a batterlo per la prima volta».
Il focus è su Wimbledon?
«No, non sto aspettando l’erba. L’obiettivo è fare risultato tutti i giorni. Piuttosto aspetto la stagione sulla terra per il piacere di godermela: sono anni che non ci riesco».
Il tempo passa, Matteo. A luglio saranno quattro anni dalla sua finale in Church Road, la prima di un italiano. Lo sente l’orologio che ticchetta?
«Lo sento. Ci sono giorni in cui mi snerva e altri in cui lo accolgo con più gioia. Il mio ex coach, Vincenzo, mi diceva sempre che gli infortuni mi avrebbero allungato la carriera, poi sono diventati troppi e secondo me l’hanno accorciata! Il tempo va gestito. Ci sono cose che una volta facevo con grande facilità, oggi meno. È fondamentale trovare sempre nuovi stimoli al di là della classifica, del prize money, dei punti. Stimoli interiori: cosa mi spinge a giocare questo torneo? Cosa mi emoziona ancora? Non smetto mai di chiedermelo».
Ma il super coach quando arriva?
«Ci ho riflettuto, deve essere una scelta che viene da dentro: devo sentirla di più. Sto lavorando bene con il team che ho costruito, nessuno di noi è contrario ad aggiungere una persona in più ma non mi sento in dovere di farlo solo perché va di moda. E ho sempre il supporto di Rianna, tecnico della Fitp».
Tra festival di Sanremo e Quirinale, i due luoghi più profondamente italiani, quale l’ha emozionata di più?
«Sono emozioni diverse. Una è molto istituzionale, l’altra più emotiva: a Sanremo mi sono rivisto bambino davanti alla tv e ho sentito l’abbraccio di un’Italia che in quel momento mi portava nel cuore. Sono due feste diverse. Entrambe bellissime».
Tra poco saranno 29 anni: come si vede nel futuro?
«Spero di evolvermi ancora un pochino, rimanendo attaccato alla persona che sono. Non vorrei mai guardarmi allo specchio e chiedermi: oddio cosa sono diventato? Nel percorso che sto facendo, questa è la priorità. I risultati non contano granché se non sono accompagnati da una coerenza e da un benessere personale. Non che mi piaccia meno di prima competere e vincere però sono arrivato alla convinzione che stare bene sia la cosa più importante. La popolarità tende a cambiarti: credo di essermi ritrovato l’anno scorso. Sono e rimarrò un ragazzo che si impegna».