Corriere della Sera, 17 febbraio 2025
Intervista a Pietro Terzini, artista
Pietro Terzini, classe 1990, architetto: uno degli artisti più «osservati» del momento. Nato dai social.
«Mi ci sono affacciato ai tempi di Msn, poi è arrivato Facebook, ma i più svegli erano già tutti su Duepuntozero, creato da due italiani che non hanno capite le potenzialità».
Lei ha fiutato subito il business della rete?
«Ho avuto il mio primo smartphone nel 2016: l’Università l’ho fatta senza Internet. Oggi navigo 8 ore al giorno, non ho assistenti».
Gli studi in architettura.
«Mio padre mi disse che un architetto può essere designer, ma un designer non può essere architetto. Mi sono iscrivtto al Politecnico. La moda e l’arte l’ho ritrovata per strada tempo dopo».
È rimasto a casa dei genitori fino a tardi. Le dicevano: «Quando ti trovi un lavoro»?
«Erano più che altro dispiaciuti, vedevano che mi impegnavo. Dopo la Triennale ho preso la specialistica con il massimo di voti. Ma facevo dei lavori dove al massimo ricevevo una pacca sulla spalla».
La svolta?
«Mia sorella mi consigliò di fare un master in Comunicazione alla Bocconi. “Ti farà curriculum”, mi disse. In classe ero il più vecchio, tutti a fine corso trovavano uno stage, io avevo difficoltà. Ma in qualche modo sono entrato nel mondo del lavoro».
Il primo impiego.
«In un posto dove mi sono licenziato dopo 15 giorni: dovevo indossare giacca cravatta. Non ero me stesso».
Ed è rimasto senza lavoro.
«Su Linkedin c’era una posizione aperta da The Blond Salad, la società di Chiara Ferragni. Così ho fatto il colloquio con Riccardo Pozzoli. Ci sono rimasto 6 anni».
Di cosa si occupava?
«Ho cominciato costruendo l’e-commerce. Poi ho fatto produzione dei contenuti, gestito i set, gli shooting e la comunicazione dei prodotti customizzati Blond Salad: ho chiuso più di 300 contratti».
Che periodo è stato?
«The Blond Salad è stata un’intuizione pazzesca: abbiamo iniziato nel 2016 in uno scantinato, ma solo quando nel 2018 la gente è passata da Facebook a Instagram c’è stata la svolta. Prima pensavano che fosse una app per fotografi, poi i brand ci si sono buttati a capofitto: volevano lavorare tutti con noi. Chiara è passata da 4 a 20 milioni di follower».
Si è generato così il fenomeno delle influencer.
«È stata una bolla: all’inizio venivano viste con diffidenza. A livello di marketing Chiara è un caso che ha fatto la storia».
Che ricordo ha della Ferragni imprenditrice?
«Viveva negli Stati Uniti, aveva un fidanzato americano: era attenta al business, le interessava capire cosa andava o no. Ma ha sempre delegato e credo che sia la spiegazione del “pandoro gate": era tutto in mano ad altri».
Che idea si è fatto?
«Ho vissuto quello che è accaduto con grande dispiacere: si è inventata un mestiere che poi ha permesso a tante persone di lavorare».
Quando ha deciso di fare l’artista a tempo pieno?
«Non ho mai abbandonato le mie velleità. Avevo cominciato a fare quadri usando l’immondizia del packaging dei regali che scartava Chiara. Li prendevo dalla spazzatura e usavo i sacchetti come tele. Mi ricordo ancora l’annuncio in riunione: "Pietro ci lascia per fare l’artista”. Non ci credevo neppure io, avevo solo 5 mila euro sul conto».
«Less Excell, more Chanel». Oppure «Didn’t do it». Come è nata l’idea delle frasi sopra i sacchetti dello shopping?
«Prendevo in giro quel mondo ingessato e postavo. Un giorno mi ha contattato la figlia di Rosenbaum, il gallerista più importante di Palm Beach: mi chiese 20 quadri. Mi sono ritrovato tra artisti come Warhol e Basquiat».
Poi ha creato i DM, ispirati ai messaggi diretti sui social.
«Instagram era la mia galleria, non avevo uno spazio fisico: dovevo postare più cose al giorno. Così è nata così l’idea dei DM: la gente passava il tempo a scambiarsi messaggi».
Perché il suo lavoro piace?
«Faccio ricerca, possibilmente senza copiare. Tutto è già stato scritto e i temi più forti sono vecchi di 3000 anni. Declino cose universali in chiave contemporanea».
La sua frase iconica?
«"The best things are not things": parla del consumismo e del nostro io, in bilico tra pensieri superiori e desideri terreni».
Un’arte che parla a tutti.
«L’uomo è qui da 250 mila anni, tutto è cambiato, con la chirurgia estetica anche i connotati. Quelle che restano uguali sono le emozioni: invidia, amore, la fame di arrivare».
Ha illuminato la Torre Velasca di Milano con la scritta «What do you really want».
«Sono stato contattato da Hines, la nuova proprietà, durante il Natale di due anni fa. Era una domanda rivolta al nostro io più profondo».
Con Tiffany ha «scritto» anche sul Duomo.
«Un cartellone gigante con la scritta “Lock your love”, nella mia solita scrittura sgangherata».
Inconfondibile.
«È la calligrafia di uno svogliato: la prof di italiano mi diceva di fare i temi in stampatello, il mio corsivo non lo capiva. Quando ho iniziato, i brand usavano caratteri Bastoni, minimal. Ho pensato: se tutti vanno dritti, io sarò storto».
È un modello per i giovani?
«La mia è la storia della mia generazione a cui è stato raccontato che bisogna impegnarsi, essere bravi a scuola, corretti, trasparenti. Poi la vita, invece, ti dice che ti devi un po’ “ingegnare"».
Pare che il sentimento più diffuso tra i giovani sia l’ansia. È così anche per lei?
«La converto in energia: a chi è ansioso consiglio di fare qualcosa, qualsiasi essa sia. Magari da quella nascerà altro, come è successo a me».
OnlyFans: un’ennesima scorciatoia?
«L’ossimoro dei nostri tempi: siamo inclusivi, ci amiamo per come siamo e poi c’è il boom della chirurgia plastica. Lo stesso vale per OnlyFans: le donne forti e poi c’è una app che vive di prostituzione».
Che cosa rappresenta per lei Milano?
«Un vantaggio. Da Lodi, la mia città, mi bastava sedermi sul treno e arrivare in un posto dove potevo essere giudicato in base al talento».
Chi l’ha ascoltata?
«Un gallerista milanese, Glauco Cavaciuti. Aveva sentito parlare di me, è venuto a cercarmi a Lodi. Abbiamo fatto una mostra che ha messo in fila centinaia di persone. Gli sono grato: il mondo dell’arte è chiuso, lui mi ha tirato fuori da Instagram e mi ha dato uno spazio fisico. Dopo di lui si sono fatti vivi tutti».
Le rimproverano di essere troppo commerciale.
«Per me è un complimento. Significa piacere».
Un suo maestro.
«Il professore di progettazione architettonica Camillo Conticini. Cattivissimo. Mi ha insgenato che se vuoi fare qualcosa, quella cosa deve essere la tua vita. L’ossessione batte il talento».
Artisti di riferimento.
«Damien Hirst, Takeshi Murakami, Bariq Cobbs: la mia triade commerciale».
Tra Canaletto e Koons?
«Canaletto ha una capacità tecnica superiore, ma oggi è sbagliato considerare l’arte solo quella fatta con il pennello. L’arte deve essere espressione del suo tempo».
«Comedian», la banana di Cattelan: arte o marketing?
«Cattelan è un genio, sa che l’arte è un sistema. Quella banana all’interno di un sistema è considerata arte, fuori dal sistema è solo una banana».
Suoi collezionisti celebri?
«Il mio gallerista non mi dice nulla. Ma ho fatto una vendita diretta a Reece James, il capitano del Chelsea».
Un DM per il 2025.
«"People just want peace”, senza la pace non ci sono le basi per nulla, è come la salute nella vita».
Citando una sua opera, cosa vogliamo veramente?
«Tutto quello che ci circonda non ci porterà felicità. Alla fine sei solo con te stesso».
Lei è felice?
«Sono stressato. Ma faccio la vita che mi piace».